La Palestina è una questione femminista
Nadia Elia, nel libro La Palestina è una questione femminista (Edizioni Alegre, 2024) ci insegna che non esistono terre libere senza donne libere. Dall’inizio della Nakba, le donne palestinesi sono state le prime vittime di tortura israeliana e il primo simbolo di una resistenza che ancora persiste.
Oggi la questione palestinese viene raccontata sotto una lente militarizzata , che ci parla del suo popolo come un numero di vittime ignote. In questo scenario, vogliamo dare un volto a quel popolo di donne, bambini e persone queer che lottano e resistono ad un regime coloniale dal 1948.
Nadia Elia considera un attivismo che spesso viene eclissato dalla narrazione della lotta per la liberazione e lo racconta con tutta l’intersezionalità che gli appartiene, enfatizzando l’interconnessione tra le lotte di persone queer, donne, persone nere e fuori dalla cornice etero normativa e patriarcale.
L’attivismo nella diaspora è un attivismo che è del mondo intero, sia perché appartiene a un popolo che è rifugiato in tutto il pianeta e si mobilità per difendere la madrepatria, sia perchè questo si intrinseca con altre lotte che sono delle sue sfaccettature: lottare per la liberazione della palestina dall’occupazione vuol dire portare avanti una lotta antirazzista, poichè è il sistema giuridico israeliano che ha ufficialmente tolto i diritti civili alla popolazione palestinese. E’ intrinseco alla lotta la sua natura anticarceraria di fronte a migliaia di palestinesi imprigionati senza accuse, se non quella di essere palestinesi. Il sionismo è colonialismo di insediamento, ci spiega l’autrice, e in quanto tale rende la lotta anticoloniale ma anche ecologista : l’occupazione israeliana ha l’intento di rendere la terra inabitabile , sterile e tossica: “Nessun custode indigeno della terra la distrugge intenzionalmente, ma i sionisti sono colonizzatori dediti allo spossessamento e allo sfollamento, non alla cura. Loro vogliono possedere la terra , non appartenere a essa”.
Infine, la lotta per le liberazione palestinese è ovviamente femminista: la violenza di genere da parte dei militanti israeliani si protrae sistematicamente dagli anni Quaranta. La principale agenzia delle nazioni unite nel campo dei diritti umani ha nel 2024 pubblicato un rapporto in cui condanna l’abuso diffuso e sistematico di Israele nei confronti delle e dei palestinesi nella detenzione e nell’arresto arbitrario. Gli esperti di diritti umani hanno ricevuto rapporti documentati di abusi, torture, molestie sessuali e stupri.
L’autrice, attivista e parte del Palestinian feminist collective ci parla del suo popolo, delle sue sorelle e della loro lotta. Questa viene raramente posta al centro della narrazione mainstream, maschilista e militarizzata. Le donne palestinesi dal 1948 sono in prima linea nella difesa della terra e delle proprie case: si organizzano e resistono in una società patriarcale dove il loro corpo è la prima vittima del colonialismo. Sono le prime nell’associazionismo, nei collettivi di base al mondo accademico e quello legale. Nadia Elia scrive con tutta la rabbia che le spetta ma non perde la speranza e ci invita a guardare alla lotta delle sue sorelle come un trampolino per la liberazione palestinese, non più vittima del patriarcato, dell’ipermilitarizzazione e del colonialismo.
“Siamo le donne stuprate che sono sopravvissute per sostenere e amare le proprie sorelle. Siamo le giovani che ridono in faccia al patriarcato, smantellando le sue istituzioni , elevandosi al di sopra del suo arcaico pensiero binario”.
Colonialismo e questione di genere
La questione di genere è al centro dell’analisi dell’occupazione israeliana ed è dove noi vogliamo soffermarci : essere donna in Palestina vuol dire essere considerata come “allevatrice di piccole serpi”. La violenza ha un fine: separare i nativi dalla terra. Punire la donna per la sua capacità riproduttiva vuol dire politicizzare la questione fino a impedire l’accesso alle risorse sanitarie durante la gravidanza e al momento del travaglio. Nel 2015 le Nazioni Unite hanno denunciato che il 25% delle donne palestinesi a Gaza e in Cisgiordania rischiava di morire durante il parto e il 35% dei bambini prima dei 5 anni di non raggiungere il pieno sviluppo.
L’autrice nel libro racconta che essere donna in uno stato colonizzato, vittima di un oppressore, ti espone sia alla violenza da questo perpetuata ma anche a quella del patriarcato all’interno del tuo stesso popolo. I popoli colonizzati cercano di mantenere in vita le proprie “tradizioni” e irrimediabilmente questo fa sì che si voglia conservare una cultura che blocca il cambiamento e il processo di modernizzazione della società. Quello che scaturisce è che maggiore sono le componenti di giustizia di genere e sessuale associate alla cultura coloniale, maggiormente la risposta del popolo occupato sarà l’intensificazione di norme opposte. Da qui l’aumento dei femminicidi e delle violenze di genere nelle zone occupate. L’intensificazione dell’eteronormatività ha avuto effetti catastrofici sulle vite delle donne: in un contesto di sempre meno mobilità degli uomini, il corpo della donna torna a essere una sfera di potere e il controllo su questo è considerato un capitale culturale. La connessione tra la violenza di genere sionista e quella intracomunitaria aumenta di pari passo alla marginalizzazione e alla povertà: questo fenomeno di intersezionalità della sfera politica, sociale ed economica è stata studiata non solo per la questione palestinese , ma anche in altre situazioni di oppressione. Non si può quindi guardare a una liberazione della terra senza una liberazione delle donne che la abitano.
Pinkwashing e Palestina
Nel 2001 in Palestina nasce l’organizzazione ALQAWS, che lotta per i diritti delle persone lqbtqia+ in Palestina. L’organizzazione ha denunciato da subito il pinkwashing di Israele che da anni si dichiara nel panorama internazionale come l’unico stato “ gay-friendly” in Medio oriente. Questo tentativo da parte di Israele di mantenere un’immagine progressista e liberale rappresenta la classica narrativa imperialista occidentale che crea un confronto tra il paese civilizzatore e quello arretrato. Non viene considerata però la violenza che Israele utilizza ogni giorno sulle persone queer in Palestina: una pratica ormai nota è la isqat siyasi: è frequente che le forze israeliane minaccino di rivelare gli orientamenti sessuali dei palestinesi in cambio di informazioni e di collaborazione.
La vera emancipazione va quindi di pari passo con la lotta al colonialismo e all’ipermilitarizzazione nel territorio, che non può non essere considerata come motivo di svilimento dei valori e dello sviluppo palestinese.
Continuare a considerare la lotta per i diritti lqbtqia+ come occidentale e sionista, non fa altro che sminuire la lotta anticoloniale, in quanto divide per categorie una battaglia che invece è unica, distorcendo la realtà della violenza da parte di Israele. Non sarebbe possibile questa narrazione se non ci fosse di fondo un principio di omonormatività che normalizza persone lqbtqia+ solamente se appartenenti a categorie sociali conformi: bianche e non razzializzate.
Femminismo non imperialista
L’attivismo palestinese conosce da tempo l’acronimo PEP ( Progressive Except for Palestine) declinato anche in FEP (Feminist Except Palestine), che descrive un fenomeno che si protrae dagli anni Sessanta e che esclude dalla lotta femminista la questione palestinese.
Un episodio di Fep riportato da Nadia Elia riguarda la conferenza mondiale sulle donne indetta dalle nazioni unite nel 1985 a Nairobi, durante la quale Betty Friedan, icona del femminismo occidentale, ha chiesto alla femminista egiziana Nawal el Saadawi di non nominare la questione palestinese una volta salita sul palco.
Dieci anni dopo, Hillary Clinton intervenne durante la stessa conferenza in Cina sostenendo che: “I diritti umani sono diritti delle donne e i diritti delle donne sono diritti umani”. Clinton continua il discorso sostenendo che non c’è modo di garantire che le donne siano capaci di scegliere il proprio destino senza che i governi di ogni paese si assumano la responsabilità di assicurare e tutelare i diritti umani riconosciuti internazionalmente. Nonostante il discorso estremamente esplicito, si dimentica di accusare Israele di venire meno a questa presa di responsabilità.
Gli eventi riportati rappresentano perfettamente il sentimento che circonda le palestinesi: la sensazione di essere escluse dalla narrativa occidentale quando si parla di lotta femminista. Layali Awaad, allora studentessa, risponderà a Clinton anni dopo con queste parole: “ Quando hai scelto di parlare del paese in cui sono nata, non hai rammentato neanche una volta le violazioni dei diritti umani che Israele commette contro donne e bambini… siamo invisibili, come le donne lo sono sempre state nel corso della storia”
Quando parliamo di femminismo bianco parliamo di un femminismo che va a braccetto con il militarismo imperialista. Lo stesso femminismo che nel 2001 su Ms. Magazine considerava che l’occupazione in Afghanistan avrebbe portato alla liberazione delle donne afghane, senza mai però confrontarsi con le donne che vivevano l’occupazione. Infatti, le femministe di Rawa, associazione rivoluzionaria delle donne afghane, denunciavano il fondamentalismo religioso tanto quanto l’occupazione statunitense.
Raccontiamo il femminismo imperialista come il femminismo secondo cui l’onere delle donne bianche è quello di salvare le donne musulmane con ogni mezzo possibile, a partire dall’occupazione in Algeria da parte dello stato francese. Sono noti episodi in cui le donne algerine venivano private del proprio velo e immortalate in scatti di nudo allo scopo di “modernizzare” la donna musulmana. Nell’ottica occidentale, l’oppressione maggiore era il velo, non il colonialismo.
E’ lo stesso lo sguardo occidentale verso la questione palestinese, ma Nadia Elia ci tiene a ricordarci che:
“Il sionismo non ci ha mai esotizzato, non ha mai preteso di salvarci, modernizzarci o liberarci. Ci ha sempre volute morte”. Nella Hijab strappata dai militari israeliani alle palestinesi non vi è l’intento di liberare la donna, ma solo di umiliarla, aggredendo e annientando la sua intimità.
INCITE! Women of Color Against Violence è uno dei primi movimenti femministi statunitensi che si scosta da questa visione prevalentemente occidentale e, sostenendo la causa palestinese, denuncia all’interno dei centri femministi bianchi un radicato razzismo arabofobo. Questo comporta una visione del sionismo come liberatore piuttosto che opprimente. Ma è possibile essere sioniste e femministe allo stesso tempo? Si può sostenere la fine del patriarcato ma non la fine dell’oppressione di un popolo su un altro? Oggi abbiamo bisogno di un femminismo che sia onnicomprensivo: antirazzista e anticoloniale , libero da imposizioni eteronormative e omonormative.