È questo femminismo quello che ci salverà?

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Se ne parlava già il 3 maggio, ma la decisione effettiva della Corte Suprema degli Stati Uniti è arrivata il 24 giugno 2022 e ha rappresentato niente meno che la fine.

La fine di cosa?

Per farla breve, la fine del diritto all’aborto.

Per giorni a seguito del 24 giugno si è letto online di “Roe v Wade”, in italiano “Roe contro Wade”, quella sentenza del 1973 che la giurisprudenza (non solo americana) interpreta come una pietra miliare in materia di aborto: partiamo da qui.

Anni ’70. Texas.

La nostra Jane Roe si chiama Norma McCorvey e vive una storia che è quella attuale di tante donne vittime di violenza: è intrappolata in un legame abusivo, e da questo ha già avuto più di un figlio. Quello che porta in grembo sarebbe il terzo.

Norma viene contattata da un team legale, guidato da Sarah Weddington, che le cammina fianco a fianco nel raggiungere il tribunale con una richiesta, oltraggiosa o ambiziosa a seconda di chi stesse ascoltando: lasciare alla donna il diritto di chiedere un aborto anche in caso di salute sia della madre che del feto.

Nel periodo in analisi a occuparsi d’aborto è ogni singolo Stato, libero di prendere decisioni senza dover rendere conto a nessuno. Weddington e McCorvey (rinominata Roe per motivi legati alla privacy e alla salvaguardia) si trovano su un campo di battaglia contro niente meno che il Texas stesso, rappresentato dall’avvocato Henry Menasco Wade.

Facciamo un salto in avanti, al voto della Corte Suprema: sette contro due. Sette giudici a favore della richiesta di Weddington, due contro, e la seduta è tolta. Si celebra una nuova giurisdizione in materia: l’aborto sarà possibile fino al momento in cui il feto potrà sopravvivere in autonomia al di fuori dell’utero materno, e in caso di pericolo per la salute della donna sarà possibile anche oltre il limite posto precedentemente. L’aborto sarà quindi un diritto della donna – salvo medici obiettori di coscienza, una piaga di cui soffriamo anche in Italia e su cui non sono presenti dati certi.

Cosa succede, quindi, nel momento in cui la sentenza del 1973 viene presa e “ribaltata”? 

Si torna sui propri passi. Si torna al 1970 (non al Medioevo, come esagerano alcuni), quando Norma McCorvey, già madre di due bambini, aspetta faticosamente il terzo.

Cosa succede, dopo che viene presa e comunicata una decisione simile, sui social media, che sono il nuovo campo di battaglia di una generazione che si dice cresciuta a “pane e distopia”? 

Ci si supporta a vicenda (benissimo!), ci si ribella (bene… fino a un certo punto), si esagera (eh, no).

Su TikTok, sempre più persone (in Stati liberali o direttamente al di fuori degli Stati Uniti) hanno iniziato a dare la propria disponibilità per donne che volessero andare a “campeggiare”. Il verbo camping è velocemente diventato sinonimo del viaggio (duro a prescindere) che porta una donna ad abortire, e la rete che si è creata ha fatto da supporto a coloro che più si sono sentite indifese dopo l’annuncio del 24 giugno.

Non è un segreto che esistano applicazioni utilizzate per tracciare il ciclo mestruale, né è dubbio che quelle applicazioni conservino i dati loro comunicati. Per paura che i dati su eventuali mestruazioni saltate (possibile sintomo di gravidanza, oltre che di amenorrea secondaria o altro) cadessero nelle mani sbagliate, molte donne hanno smesso di utilizzarle. Clue, una delle principali applicazioni in materia, ha comunicato dalla sua sede di Berlino che mai avrebbe utilizzato i dati delle utenti a favore di una decisione come quella della Corte Suprema. Anche la giornalista e attivista Donata Columbro parla di app come Clue e Maya e di come queste speculino sui corpi delle donne: la professoressa e ricercatrice Karen E. Levy definisce questo atto “sorveglianza intima”.

Però è facile commettere errori, e ancora più facile è passare alla parte del torto.

A partire dai semi di papaya si è cominciato a comunicare rimedi naturali per abortire, sfociando però in intrugli sempre più pericolosi, spesso letali. Se Internet è alla portata di tutti, continua a non essere scontato che lo siano le informazioni corrette.

Nei giorni a seguire il 24 giugno molte informazioni personali dei giudici della Corte Suprema sono state pubblicate online: non solo numeri di carte di credito (bloccate poche ore dopo) e numeri di telefono, ma gli indirizzi delle loro abitazioni, mettendo così a rischio delle persone.

Quello di proteggere i propri diritti è un diritto a sua volta.

 Ma è questo femminismo – online, a tratti esagerato, che forse di femminismo non ha molto – quello che ci salverà?