Zitti e buoni

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Sono quasi le sei del pomeriggio nel primo porto marittimo colombiano. Fa un caldo davvero esagerato, a cui non sono abituata. È un caldo, questo, che mi soffoca e un po’ mi stressa, è umido e non mi fa pensare.

Dopo otto giorni trascorsi a Medellín, torno a un appartamento su una bella strada luminosa, movimentata e rumorosa. È un appartamento collocato su una delle strade principali, eppure la connessione ad Internet arriva appena, attraversando a fatica le pareti bianche e spesse che mi circondano. È un appartamento, come una città, che mi taglia fuori dal mondo, o almeno dal mondo che c’è oltre il ponte Pumarejo, un ponte che collega la città di Barranquilla e il dipartimento della Costa Atlantica al resto del Paese.

Metto la chiave color argento nella serratura, apro di fretta la porta, la chiudo alle mie spalle e appoggio a terra lo zaino, pesante dell’attrezzatura fotografica che porto sempre con me. Mentre mi avvio verso la doccia vedo il telefono illuminarsi. Una notifica mi avvisa che la diretta di Jahnfran, un fotografo che ha documentato i peggiori teatri del Paro Nacional a Santiago de Cali, inizierà a breve.

Socchiudo gli occhi assonnati dopo quarantotto ore ininterrotte di corse, interviste e voli, ma vengo ben presto svegliata da urla, sento passi pesanti e spari. Mi sento la persona più miserabile  al mondo: in questo momento sono al sicuro, chiusa all’interno di quattro pareti bianche, e quello stesso caldo e quella stessa connessione lenta che poco fa  mi stressavano diventano dettagli insignificanti, quasi ridicoli. Sento soltanto le urla di donne e giovani che vengono arrestati e fatti salire su camion senza targhe per il solo fatto di aver incrociato agenti dell’ESMAD, le squadre antisommossa colombiane.

Non sento più il sonno, non sento più la stanchezza, la fame né il caldo, ma solo un grosso nodo in gola e l’eco delle urla rimbalzare sulle pareti. Intravedo solo immagini sbiadite e sento fortissime le urla dei miei coetanei, che stanno cercando di spiegare agli agenti il significato quella sfortunata coincidenza, quel tempismo infelice. Vengono strattonati, trascinati e portati via in gruppo. Presto le urla si confondono con i lamenti di madri e volontari che assistono i manifestanti, e si sente in coro “nombre y cédula amigo, nombre y cédula”. Chi non si identifica con nome e carta d’identità, infatti, viene facilmente portato via, e altrettanto facilmente diventa un desaparecido. 

Una piccola stella in un’immensa costellazione di vite stroncate, di cui si perdono le tracce e rimangono soltanto gli aloni. Aloni di vite disperse, che immagino illuminarsi ogni giorno alle sei del pomeriggio, quando il sole si nasconde dietro la Valle del Aburrá e i  lampioni si accendono sui suoi versanti. Nella luce soffusa dei lampioni di Medellìn, quando il sole se ne va, immagino le vite di chi deve restare nascosto. 

Alle urla nella diretta si sommano i molti messaggi di chi, con me, partecipa alla live. Scorgo nella chat i pochi codici identificativi visibili, inviati in ripetizione nella speranza che la diretta diventi un documento di denuncia valido. L’unico modo di poter aiutare da casa. 

Pochi codici, perché molti agenti decidono di toglierlo, di nasconderlo, di rimanere dei senza volto. E allora non vedi chi ti arresta, chi ti porta via, vedi solo una divisa nera, grossa, intimidatoria, e chissà se è quella l’ultima immagine che molti desaparecidos vedono poco prima di essere trovati morti, lungo le sponde dei fiumi, con addosso evidenti segni di tortura.

E quando, dopo le percosse degli agenti, quella poca aria rimasta nei polmoni di chi è per strada si trasforma con estrema fatica in quelle due parole, nombre y cédula, che sono l’unica possibilità di rivedere i propri affetti, tutti festeggiano l’aver strappato in tempo una vita dalle mani di quelle ombre anonime. 

Ascolto un giovane in lacrime riuscire finalmente a pronunciare quelle parole tanto attese, e lo vedo rilasciato dagli agenti. Mi si annebbia la vista, ma riesco a leggere il messaggio di un vecchio compagno di liceo con cui ero solita guardare ogni maggio il festival della canzone europea:

…abbiamo tanto sognato questo momento, abbiamo appena vinto l’Eurovision

Accendo di fretta il PC e vedo in diretta quattro giovani italiani su un palco, Rotterdam, che per una sera è l’Europa tutta e per qualche secondo sento un caldo nel petto alzarsi e un sorriso interrompe le lacrime. Ottomila trecento chilometri più in là, quattro ventenni stringono fra le mani un sacrificio conquistato dalle strade di Roma. Quattro ventenni urlano, e mentre in cui vedo loro piangere di gioia sento piangere nella diretta ancora in corso centinaia di ventenni nelle strade di Cali, mentre sotto gli spari protestano perché vogliono essere soltanto giovani, aspettarsi un futuro più rassicurante di un presente schizofrenico e profondamente ingiusto.

Che poi non siamo così diversi, io e voi, voi e loro. Siamo tutti ventenni e siamo incazzati, ci indigniamo ancora per le ingiustizie e lottiamo con le unghie e i denti per venire ascoltati, considerati, pensati non come un piccolo tassello di un futuro deciso a tavolino, ma i protagonisti di un futuro che si costruisce tutti i giorni, in un modo o nell’altro