Quando la moda fa male: gli effetti della fast fashion sul pianeta

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«Fast fashion is like fast food…after the sugar rush it just leaves a bad taste in your mouth».

«La fast fashion è come il cibo spazzatura… dopo la scarica di zuccheri lascia solo un saporaccio in bocca».

Con questa frase di Livia Firth, fondatrice e direttrice creativa di Eco-Age, possiamo comprendere il significato del concetto “Fast fashion”.

Coniato alla fine degli anni Ottanta dal New York Times, fa riferimento al fenomeno per cui grandi aziende di moda che popolano i centri commerciali di tutto il mondo producono capi economici abbassando i costi di produzione e massimizzando allo stesso tempo il profitto e le vendite.

È ormai di dominio pubblico che i ritmi di produzione di queste aziende sono sostenibili solo in Paesi in cui i lavoratori sono sfruttati. Ma c’è un altro fattore da tenere in considerazione: la fast fashion ha un forte impatto ambientale. I  settori della moda e del tessile rappresentano infatti la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella petrolifera.

Secondo il Danish Fashion Institute, un quarto delle sostanze chimiche prodotte nel mondo viene usato per produrre il poliestere, una delle fibre sintetiche più diffusa nel campo dell’abbigliamento, la cui produzione provoca emissioni di CO2, ossido di zolfo e altri gas.
A
nche la coltivazione di cotone risulta dannosa poiché vengono usati molti pesticidi che non solo mettono a rischio la vita dei lavoratori ma anche la qualità del suolo e delle acque.

Nelle fabbriche vengono inoltre usati molti solventi e coloranti per tessuti, che rilasciano, ad ogni lavaggio, grandi quantità di materiale tossico e  di microplastiche, che finiscono direttamente nei corsi d’acqua vicini alle fabbriche.

Uno studio dell’Università della California ha dimostrato che per ciascun lavaggio di una giacca sintetica vengono rilasciati 1,174 milligrammi microfibre e che il 40 per cento di queste finisce nelle acque. 

Un altro grande problema è lo smaltimento degli indumenti in eccesso, rimasti invenduti: vengono bruciati e la loro combustione è più dannosa di quella del carbone.

Inoltre, data la scarsa qualità di questi indumenti, il loro ciclo di utilizzo da parte dei consumatori è decisamente breve: da qui il fatto che i materiali tessili rappresentano, oggi, il 20 per cento dei rifiuti globali.

L’EPA (EnvironmentalProtection Agency) ha inoltre calcolato che dei 14 milioni di tonnellate di abiti e tessuti che arrivano in discaricasoltanto il 16 per cento viene riciclato.

Per costringere l’industria della moda a un radicale cambiamento il modo più efficace sarebbe quello di comprare vestiti di maggiore qualità, anche se a un prezzo maggiore. Più l’abito si conserva nel tempo, più limiteremo i lavaggi inutili e meno emissioni produrremo. Anche in questo caso l’unica strada percorribile è ridurre i consumi.