L’inclusione a scuola: intervista a Raffaele Iosa

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“Mai dimenticare che ogni fatto ed esperienza umana deriva prima di tutto dalle radici storiche e culturali che caratterizzano una comunità”.

Queste parole, da tenere bene a mente, risultano essere un ottimo inizio per parlare di inclusione nelle nostre scuole con uno dei maggiori esperti assolutamente attivi nel settore.

Si tratta di Raffaele Iosa, che ha ricoperto, fra i numerosissimi ruoli, quello di componente dell’Osservatorio Nazionale Integrazione Scolastica e rappresentante nominato dal Governo dell’European Agency for Development in special needs education.

Nato nel 1952 in Veneto è stato maestro, direttore didattico e ispettore scolastico (Dirigente Tecnico) in pianta centrale e presso gli uffici scolastici per il Veneto e l’Emilia-Romagna.

Recentemente, esponenti di spicco dell’amministrazione centrale e altri sedicenti esperti della pedagogia sostengono – sempre con maggior convinzione – che l’inclusione di alunni con, diciamo così, criticità sia un grave errore. Un errore che induce ad “abbassare il livello” e a non valorizzare il merito. Sembra quasi che, sottovoce, avvenga un richiamo edulcorato di restaurazione – de facto – alle scuole speciali e classi differenziali. Ovvero suddividere alunni per livelli di apprendimento. Ce ne può parlare?

Fino ai primi anni settanta (ci sarà una Legge promulgata nel 1971 che inizierà ad inserire i disabili lievi nelle classi comuni, ndr) esistevano due tipi di classi “non normali”: le differenziali e le speciali. Le classi differenziali erano all’interno della scuola normale. Qui venivano inseriti alunni che, su decisione dell’allora Direttore Didattico, non erano all’altezza della cosiddetta normalità. Quindi non si trattava solamente di problemi di salute, psico-fisici, ma anche di criticità sociali e/o familiari. Queste micro-classi di 6/7 alunni avevano un apposito docente specializzato; mantenevano però un rapporto con la scuola “di tutti” perché la classe era situata all’interno dello stesso immobile.

La scuola speciale invece era un Istituto autonomo strutturato come un collegio. Gli alunni frequentanti erano in situazioni molto complesse. Anche qui occorre precisare: non solamente problemi di natura psichiatrica. Una mia cugina, ad esempio, a causa dei postumi della poliomielite, ha frequentato tre anni di scuola speciale. Dunque aspetti cognitivi e sanitari.

Fatto questo breve distinguo proviamo a fare un’ analisi: questi luoghi di apprendimento erano veramente volti alla crescita educativa dell’allievo o solamente un modo per separarli dal contesto sociale e non garantire loro un futuro dignitoso? Non dimentichiamoci che la realizzazione di sé e il diritto alla dignità sono riconosciuti dalla nostra Costituzione e dalla grandi “Carte Internazionali”.

Occorre tuttavia non dimenticare che, specialmente per quanto riguarda le classi speciali, a quei tempi la diagnostica psichiatrica e la ricerca scientifica non erano ovviamente al passo con i nostri tempi. E questo è un elemento che non può non essere non preso in considerazione.

Ti devi ricordare che vi era lo stigma del disabile in casa, quasi fosse una disgrazia. Dunque le speciali avevano in un qualche modo anche una funzione di supporto alla famiglia.

Certo. Mi permetto di intervenire per ricordare il caso di Albino Luciani. Quando Giovanni XXIII lo stava per nominare vescovo di Vittorio Veneto, alcuni vennero a evidenziare come fosse causa ostativa a divenire vescovo l’avere parenti con disabilità. La saggezza di Roncalli andò oltre e lo nominò.

Dal 1971, comunque, le speciali, differenziali e orfanotrofi furono tutti chiusi; complice un mondo che stava radicalmente cambiando: penso ai moti sessantottini, all’idea di ascensore sociale per merito dell’istruzione (mio padre era tranviere con la licenza media ed io mi sono laureato e sono ora un dirigente dello Stato in quiescenza) e adaltri fattori eminentemente socio-culturali.

Erano gli anni in cui una maggiore cultura di umanità stava maturando; ricordo ancora che Cesare Basaglia stava – con difficoltà – vincendo la nobile battaglia contro i manicomi. L’idea di internare, di nascondere, come vedi si ripete spesso.

E poi gli anni settanta sono gli anni del divorzio (1970) e della riforma del diritto di famiglia (1975), dell’interruzione volontaria di gravidanza (1978, la quale ha contribuito alla riduzione numerica di alunni con certe difficoltà, come i sordomuti).

Tornando a noi: non dimentichiamo che questa chiusura generalizzata è stata assolutamente naturale nonostante all’epoca la Chiesa aveva un ruolo attivo nella gestione del “scuola e dopo scuola” e che al governo il partito di maggioranza era la Democrazia Cristiana.

La contrarietà alle classi speciali quindi è una questione che risiede nel nostro foro interno o c’è dell’altro?

Rispondo come fanno i gesuiti che so a te fa piacere. Che cosa in educazione non è di natura etica? Attenzione: essere contrari ai luoghi separativi ha un grande valore cognitivo e sociale.

Approfondiamo questo aspetto che segna il salto di qualità da mera convinzione personale a concretezza scientifica.

Oggettivamente viviamo in una società dove ogni singola persona è diversa. Ergo la parola chiave è l’eterogeneità dell’alunno, nel nostro caso. Eterogeneità che si manifesta in aspetti ontologici dell’individuo stesso ma anche in aspetti culturali i quali sono a sua volta dipendenti dallo strato sociale che frequenta, dalla famiglia etc. Non considerare questi elementi e pensare di poter dividere in compartimenti stagni tutti quanti è semplicemente una follia.

Se pensi al nostro articolo 3, comma secondo, della Costituzione formalmente siamo tutti in grado di correre i cento metri ma al bimbo senza la gamba se non impianto la protesi non potrà mai correre. La stessa chiamata è rivolta agli operatori dell’educazione: mettere TUTTI nelle stesse possibilità valorizzando i propri talenti (per tornare all’eterogeneità) e combattendo contro i propri difetti.  Chiederei una particolare attenzione alla parola usata, non ho parlato di disturbi. Anche l’uso della parola (prima Competenza Chiave europea, tra l’altro) deve essere oculato.

Ci sono ricerche scientifiche che dimostrano come la mancanza di eterogeneità del gruppo classe abbassa i risultati scolastici; l’eterogeneità in sé è una ricchezza.

Tutto sta nel saperla valorizzare.

E qui entra in gioco la formazione dei docenti.

Certo. Una formazione di docenti di sostegno che sia degna del nome. Quando facemmo la riforma della scuola elementare si fece una approfondita formazione a tappeto. Si può fare!

Recentemente invece stiamo insistendo, anche per colpa di talune sigle sindacali, sulla quantità invece che sulla qualità.

Io mi ricordo e ho vissuto gli anni in cui fare il docente di sostegno (della classe, non del singolo alunno) veniva svolto con orgoglio e preparazione personale.

Oggi invece purtroppo il sostegno è diventato molto spesso la staffetta momentanea per ottenere il ruolo e passare poi al posto comune.

Oppure, peggio ancora, è approdo di laureati in Giurisprudenza (come te fra qualche anno) che per svariati motivi hanno trovato una fonte di sostentamento. Insegnare e aver trovato un reddito mensile non sono la stessa cosa. Sul fatto che il sistema di istruzione e formazione a causa delle sue maglie larghissime sia, in realtà, il più grande reddito di cittadinanza del Paese potremmo aprire un grande capitolo.

Restando in ambito di formazione capisci bene perché abbiamo scritto la proposta di legge sulla Cattedra inclusiva, per stimolare un cambio di tendenza e garantire che tutti, stavolta uso la parola omogeneamente, i docenti che ambiscono a diventare tali abbiano una adatta formazione al contatto con alunni che oggi qualcuno chiama disturbati, speciali, fuori dalla norma…

Torno a insistere sul versante opposto. Sempre più sostengono (per dare un tono al “Merito”) che in una classe con alunni disabili, i cosiddetti normali, vengono penalizzati. Cosa c’è di vero?

Assolutamente nulla. I dati parlano dell’esatto contrario.

Questo è frutto di una mentalità assolutamente statica e che non considera minimamente che ciò che conta, ovvero l’esperienza umana, va oltre agli stereotipi del quotidiano.

Mi sembra che l’impulso degli anni settanta stia andando veramente scemando. E questo nonostante in politica abbiamo avuto anche noi soggetti promotori (almeno a parole) del self made man, dell’uomo che è in grado di determinare il proprio destino. Tutto questo è svanito.

Capisco che “se il cieco segue il cieco entrambi finiranno sul fosso”, ma se il vedente insegnasse al cieco a camminare con attenzione? Non ne gioverebbero entrambi?

Il punto è sempre la gestione dell’eterogeneità: dove si fa didattica attiva, per competenze (per citare la dottoressa Franca Da Re) allora certamente l’aspetto pratico coniugato anche con teoria vedrà gli allievi cimentarsi in attività pratiche che valorizzano le loro differenze.

C’è un grande rischio che io chiamo “medicalizzazione” di questi alunni. Negli ultimi venti anni si è dilagata un’idea medicalizzata dell’eterogeneità.

Col certificato in mano l’alunno è oggetto di minori attese da parte di docenti e famiglie e questo può essere l’inizio di uno scarto che determina, a valle, l’abbandono di pratiche inclusive.

Quando ci faremo stima sincera del nostro interlocutore potremo riprendere a parlare di inclusione come e con lo stesso stimolo degli anni ruggenti.

Rassegnarsi su pregiudizi verso l’alunno “certificato” è la strada che porta alla crisi dell’inclusione.

L’educazione è buona se è eterogenea. Oggi è indubbio che la scuola sia il luogo dove curare e risolvere clinicamente i problemi di questi alunni.

Certa categorizzazione con nomi tecnici (come disturbo, prima citato) sta togliendo il fulcro: l’alunno nella sua interezza, con tutte le sue caratteristiche e soprattutto con i suoi talenti.

Il rischio del ritorno dei luoghi ad hoc deriva soprattutto dalla voluta antitesi assolutamente ingiustificata di separazione fra il normale è l’a-normale.

Dobbiamo riprendere don Milani e dire ad alta voce “I care !”.

Siamo andati, alla fine della nostra giornata, a visitare il museo del Duomo di Ravenna, dove ho fotografato questo splendido mosaico che recita “Aut lux hic nata est aut capta hic libera regnat” (O la luce è nata qui o, qui imprigionata, libera regna). Questa citazione è eminentemente pedagogica e segna (nel pensiero di Raffaele Iosa), insieme all’essenza stessa del mosaico, il ruolo della Scuola: come le tessere del mosaico, non perfette e diverse l’una dall’altra, messe insieme creano le meraviglie che ancora oggi, a distanza di secoli, ci commuovono.

Che cosa è per me l’inclusione? Che cosa è per me l’altro?

Forse Andrea Camilleri l’aveva capito bene: “L’altro non è altro che te stesso che ti guardi allo specchio”.