Raccontare Mirafiori: la vita oltre la Fiat

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Vedere realmente il quartiere Mirafiori Sud vuol dire cercare ciò che emerge tra le intersezioni. Lo spartiacque concretizzato da corso Unione Sovietica si erge nella sua immensità a dividere il passato dal futuro: ciò che nasce da questa commistione temporale è un presente dai connotati delicati. 

L’arrivo nel quartiere è testimoniato dalla visione dell’imponente fabbrica targata Stellantis, il gruppo automobilistico nato dalla fusione di Fiat Chrysler Automobiles e PSA, che per decenni fu il simbolo di Mirafiori Sud. Il debito identitario del quartiere nei confronti della fabbrica, se da una parte è evidente, rimane anche estremamente conflittuale, come un ingombrante cordone ombelicale che è necessario quanto difficilissimo recidere. 

Camminando per le strade di Mirafiori Sud, infatti, la tentazione sarebbe quella di etichettarlo nel complesso come quartiere residenziale, immerso nel verde e dotato di ogni servizio, dal trasporto agli innumerevoli esercizi commerciali. E se il versante orientale potrebbe a primo impatto darci ragione di questa definizione, quello occidentale nascosto tra la fabbrica e la scuola Primo Levi potrebbe pensarla in maniera diversa. Si tratta della zona in cui sorgono i “palazzi rossi”, alcuni dei 17mila alloggi eretti appositamente per gli operai della Fiat dal 1963, la cui vicinanza alla fabbrica sembra renderne più difficile l’emancipazione. E un occhio più attento vedrebbe chiaramente anche nel lato orientale stralci nascosti di staticità e dubbi sul futuro, sapientemente nascosti dalle facciate ristrutturate delle abitazioni più nuove. Ma per conoscere la realtà concreta di un luogo si deve raccontare la sua storia e ascoltare le persone che lo vivono.

Il passato.

Il quartiere di Mirafiori Sud nasce tra gli anni 50 e gli anni 70 del Novecento, in funzione dell’espansione industriale che vide come grande protagonista la nuova fabbrica automobilistica della Fiat. Tra il 1935 e il 1936 infatti, il precedente stabilimento automobilistico torinese presente al Lingotto venne sostituito con la costruzione ex novo di una struttura assai più imponente nel quartiere Mirafiori (ora Mirafiori Nord), all’estremo sud della città di Torino. Per via del secondo conflitto mondiale le prime produzioni ebbero luogo tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50; contestualmente la fabbrica, che iniziava a diventare il simbolo della città tutta, venne ulteriormente ampliata coprendo la zona di Mirafiori Sud, popolata sino a quel momento solo da campi di grano e da una piccola borgata, e che fu sede del primo aeroporto Piemontese.

L’espansione strutturale della fabbrica, promossa dal cofondatore Giovanni Agnelli, comportò in quegli anni un ingente aumento delle assunzioni di manodopera operaia, che andò a crescere per tutti gli anni Settanta sino a raggiungere il suo picco massimo nel 1971, anno nel quale i lavoratori della Fiat ammontarono a 60mila.

Il gran numero di assunzioni nella fabbrica che stava velocemente diventando emblema del progresso contribuì alla forte ondata migratoria dal meridione italiano, senza che il quartiere fosse debitamente attrezzato per offrire loro di che vivere. 

Per ovviare al sempre più evidente problema abitativo, il comune di Torino e l’indotto della Fiat avviarono un processo di edilizia popolare che, nel giro di breve tempo, fu in grado di dare una casa agli operai emigrati.

Emerge così la conformazione del quartiere Mirafiori che rimarrà, suo malgrado, cristallizzata per lungo tempo: un quartiere-dormitorio nell’estrema periferia della città, abitato da operai e privo di servizi.

Lo splendore di cui godette la fabbrica in quegli anni venne sfruttato dal nuovo amministratore delegato Gianni Agnelli, intenzionato ad ampliare la produzione, già di estremo successo nel panorama locale, su scala internazionale. 

La vita operaia di quegli anni a Torino ci viene raccontata da Ilaria, i cui genitori sono emigrati dalla Sardegna e dalla Sicilia negli anni 60 rimanendo in città sino agli anni 80. I genitori di Ilaria lasciarono le rispettive isole in cerca di lavoro, sapendo dai fratelli, che già prima di loro avevano intrapreso lo stesso viaggio, che la città di Torino fosse sede di tante opportunità di lavoro per i giovani. I genitori di Ilaria non lavorarono mai alla Fiat e per tutti gli anni della loro permanenza vissero in via Passo Buole, al confine tra Lingotto e Mirafiori, accanto alla nota scuola materna Robilant, che negli anni 80 venne occupata dal centro sociale El Paso. Il racconto della loro quotidianità tuttavia non è dissimile a quello dei numerosissimi operai della Fiat, coinvolti nelle medesime dinamiche socio-lavorative.

Stabilirsi non fu facile, in quanto un forte problema di discriminazione si traduceva nel fenomeno per cui, all’esterno delle case, i proprietari affiggevano cartelli con su scritto “non si affitta ai meridionali”. Il paradosso delle zone industriali torinesi risiedeva nel fatto che dal punto di vista lavorativo la manodopera dal sud era fortemente richiesta e calorosamente accolta, ma fuori dalle porte delle fabbriche la loro presenza in città era apertamente ostracizzata. Andavano così a crearsi fenomeni di ghettizzazione per i quali la vita degli operai e delle operaie si esauriva all’interno delle comunità dei compaesani: conclusa la giornata di lavoro, si aveva come culla della socialità il bar di fiducia frequentato prevalentemente da siciliani, pugliesi e sardi. Erano gli anni delle rivolte studentesche e operaie, ma le dinamiche della vita quotidiana spesso rendevano difficile ai lavoratori interessarsene realmente.

Nonostante la vita operaia fosse prevalentemente votata al lavoro e completamente estranea a quella del piemontese di nascita, gli occhi dei genitori di Ilaria continuarono ad avere il mito della città di Torino, anche dopo il loro ritorno in Sardegna, e degli Agnelli come di “una famiglia di grandi signori, elegantissimi [nonché] benefattori che avevano dato lavoro a tanta povera gente”.

Il mito stava però già presentando le prime incrinature a causa della crisi petrolifera del 1978, che insieme alla crisi della lira fece precipitare tutto il paese in una situazione economica destinata a seguire una lunga parabola discendente. Sul finire del 1980 infatti l’azienda annunciò 14.469 licenziamenti in vari reparti, e nonostante l’azione dei sindacati per cercare di trovare una intermediazione, il crollo del governo fece saltare gli accordi. Alla fine del mese di settembre vennero annunciati sei mesi di cassa integrazione per 24mila operai attraverso l’affissione sui cancelli della fabbrica di quelle che verranno ribattezzate “Liste di proscrizione” per i criteri discriminatori con cui erano state stilate. Lo strumento della cassa integrazione, con cui l’azienda si è fatta riconoscere anche nella cronaca attuale, venne allora interpretato come “un tentativo di riprendersi dall’isolamento in cui [l’azienda] era finita dopo l’annuncio dei licenziamenti”.

La situazione lavorativa estremamente critica non poté che avere gravi conseguenze sulle sorti di un quartiere la cui identità era stata plasmata sul mito della fabbrica. Furono quelli infatti gli anni in cui Mirafiori sud iniziò a essere tristemente nota per i fenomeni di disagio sociale, criminalità e ghettizzazione che interessava soprattutto la zona est della periferia, dove tra le altre si trovava via Artom, sede del più grande complesso di case popolari della città di Torino. Il fenomeno fu così capillare nel quartiere che in quegli anni intere palazzine in via Artom finirono totalmente sotto il controllo della criminalità organizzata. 

Per queste ragioni a partire dagli anni Novanta il comune di Torino avviò un processo di riqualificazione di Mirafiori Sud volto al recupero abitativo e sociale del quartiere. Intanto, negli anni Duemila la produzione automobilistica della Fiat si ridusse ulteriormente, sino ad arrivare ai giorni nostri, dopo l’acquisizione del gruppo fiat da parte di Stellantis, dove nella fabbrica di Mirafiori vengono prodotti solo due modelli di automobile la cui produzione verrà presto spostata all’estero, non senza conseguenze per i lavoratori torinesi. Sono 2260 gli operai dello stabilimento in cassa integrazione da mesi, e a diverse altre migliaia vengono proposti incentivi per la pensione anticipata. La narrazione della fabbrica come luogo di riscatto della povera gente può dirsi definitivamente esaurita, per far emergere ancor più chiaramente come gli interessi dei lavoratori non siano mai stati parte dei valori della Fiat.

Il presente.

Ho incontrato Nour, che dal 2006 vive a Mirafiori sud, per farmi raccontare cosa voglia dire vivere ora il quartiere e la sua “ingombrante” storia. Nour è una studentessa di biologia di 24 anni, che in seconda elementare si è trasferita con la famiglia in Via Artom, in una delle palazzine costruite dall’ATC, le Agenzie Territoriali per la Casa del Piemonte Centrale. Al suo arrivo, Mirafiori Sud era un quartiere in piena transizione. L’equilibrio nel vicinato era estremamente delicato, complice l’eterogeneità dei background di ogni abitante; sono questi gli anni in cui Mirafiori sud inizia a caratterizzarsi per la sua componente multietnica, che creava barriere linguistiche e culturali non sempre facili da colmare. Ciò che contribuiva – e in parte lo fa tutt’ora – all’isolamento del quartiere, mi spiega Nour, sono anche i complicati collegamenti con le altre zone della città: “Via Artom è la periferia della periferia” e i mezzi pubblici di superficie pur essendo presenti transitano in maniera irregolare e sporadica. La riqualificazione, che ha interessato soprattutto il versante est di Mirafiori (“quello più conosciuto, nel bene e nel male”), si è dunque concentrata su tre aspetti principali: la comunità, l’abitare, i trasporti. In piazza Bengasi, al confine con Lingotto, si trova infatti una fermata della metro che agevola i collegamenti con il centro città; tra via Vigliani e via Garrone sono stati aperti numerosi discount estremamente utili soprattutto per le persone a basso reddito e tra le palazzine popolari sono stati fatti lavori di edilizia privata per scongiurare il rischio di ghettizzazione. Ma Nour pone l’accento sulla doppia faccia di questo fenomeno, mettendo in evidenza il rischio di gentrificazione del quartiere: “Le grandi catene di supermercati sono sicuramente utilissime, ma vanno a ledere il lavoro dei commercianti locali; più in generale le riqualificazioni da un lato creano comunità, incentivano la socialità e attirano i giovani, dall’altro aumenta il costo degli affitti e della vita in generale”. 

Un aspetto molto sentito della vita del quartiere sembra essere anche la mancanza di opportunità lavorative: l’implementazione di servizi, centri culturali e il miglioramento della situazione abitativa hanno lasciato comunque un enorme vuoto lavorativo per cui gli abitanti del quartiere, soprattutto i più giovani, si trovano a vivere la loro quotidianità di studenti o lavoratori in altre zone della città. Questo fenomeno, oltre a portare al progressivo spopolamento di Mirafiori, che attualmente risulta il quartiere più vecchio della città, crea nei giovani un senso di straniamento rispetto alla realtà in cui abitano. Secondo Nour tuttavia questa è una problematica non tanto di Mirafiori ma della società contemporanea, poiché essendo cambiati i ritmi di vita le occasioni di creare comunità sono estremamente rare. 

Per dare modo a tali occasioni di crearsi, Mirafiori ha lavorato strenuamente nel corso degli anni per la creazione di realtà che potessero venire in contro alla popolazione in diversi modi: solo in via Artom troviamo il Centro di protagonismo giovanile, una sede del CUS e la Casa nel Parco. Maurizio Vico, operatore sociale della Casa nel Parco, mi racconta le attività, ad oggi, della Fondazione Mirafiori. 

L’ente nasce nel 2008 con l’esplicito intento di dare continuità al lavoro di riqualificazione del quartiere iniziato negli anni 90. Alla sua istituzione contribuiscono diversi progetti europei, i piani di recupero di via Artom, la città di Torino, la compagnia di San Paolo e diversi enti del terzo settore, con l’interesse comune di creare uno spazio di protagonismo civico per la popolazione di Mirafiori Sud. Dal 2011 la Fondazione prende in concessione dal Comune di Torino la Casa nel Parco, inserita all’interno della rete delle Case del Quartiere – inizialmente nata in maniera indipendente e, secondariamente con l’intercessione della Fondazione, finanziata da fondi istituzionali. Le sue attività sono inserite all’interno di una programmazione estiva e una invernale, e comprendono tra le altre attività culturali, doposcuola, progetti educativi, teatro, cinema all’aperto e sportelli di varia natura, come lo sportello sociale o quello per i servizi al lavoro. La Casa nel Parco è anche impegnata in attività esterne con le scuole del quartiere e con altri enti del terzo settore, e apre i suoi locali anche all’esercizio di corsi sportivi e ricreativi elargiti da privati a prezzi calmierati. Pur avendo al suo interno un reparto impegnato a livello lavorativo, si compone anche di un comparto volontaristico che vuole essere rivolto soprattutto ai giovani del quartiere: Mirafiori, mi racconta Maurizio, presenta infatti una forte vocazione volontaristica sia religiosa che laica, che ha però quasi sempre interessato la popolazione storica del quartiere, quasi totalmente anziana. 

Uno dei ruoli fondamentali della Casa nel Parco è quello di mediazione tra il cittadino e le istituzioni, sia dal punto di vista burocratico che linguistico, vista la sua natura multietnica. Maurizio, per esempio, si occupa dello sportello casa che, attraverso la cooperazione con le istituzioni e le realtà del terzo settore, si occupa di garantire il diritto all’abitare dei cittadini e prevenire gli sfratti in un momento storico in cui tutta la città è interessata dal problema abitativo.

In una pluralità di settori la Fondazione è dunque impegnata nell’intento di far vivere, realmente, il quartiere ai suoi abitanti, andando a colmare il senso di estraneità per sostituirlo con il fare rete: creare cioè il contatto tra persone con background diversi, dagli anziani alle persone immigrate agli studenti, e fornire delle attività di mutuo aiuto che scongiurino il rischio di ghettizzazione.

Il futuro.

I racconti delle persone che ho incontrato fanno emergere una Mirafiori segnata da un passato ormai lontano, dominato dal paradigma fordista, che con la sua dipartita sembra aver lasciato un enorme buco identitario nei suoi abitanti. Secondo Maurizio il rischio di questo fenomeno è che si viva nella nostalgia di un passato mitizzato, in cui Mirafiori era effettivamente diventata simbolo distintivo della città tutta, senza chiedersi veramente quanto di quel mito fosse realtà e quanto, invece, semplice retorica borghese. Per questa ragione, ciò che è importante ora è guardare al futuro facendo appello soprattutto al proprio immaginario: potremmo dire di trovarci davanti a una tela bianca capace di diventare qualunque cosa in futuro, ma cadremmo in errore. Mirafiori Sud non potrebbe mai essere una tela bianca, perché tutti i momenti della sua storia – dalla nascita funzionale agli interessi dei padroni, all’abbandono subito nel momento in cui la sua utilità è venuta meno alle logiche del capitale – possono contribuire ad accrescere le consapevolezze su quale direzione si voglia prendere. 

Con gli occhi di oggi non saremo mai in grado di avere delle risposte certe sul futuro di Mirafiori, ma i segnali dal presente ci possono sicuramente dare un’idea: è difficile, infatti, camminare oggi in via Artom e credere che solo quarant’anni fa fosse una delle zone più malfamate della città. Eppure, senza voler scadere in pericolosi idealismi, tutto sembra presagire che la vocazione del quartiere sia la partecipazione, la comunità, la vita, anche per la determinazione del suo domani.