I rifiuti in India sono ovunque, come le mucche

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Cammino per le vie strette di Dharavi e devo stare attenta a dove metto i piedi … e la testa. Non c’è luce elettrica, soltanto l’alone di luce solare del cielo sempregrigio di Mumbai. Ma ci sono grovigli di cavi neri ovunque, a pochi metri dal suolo. Non esistono fognature e per un quartiere intero, di centinaia di persone, c’è solo un bagno. Cammino per le vie strette di Dharavi e incontro bambini a ogni angolo, pronti a salutarmi e battermi il cinque. Passo accanto alle loro case senza porta, spio la vita che si svolge in quelle stanze di pochi metri dove abitano insieme a famiglie numerose. Attraverso il quartiere degli artigiani, delle concerie, dei sarti. E poi arrivo al quartiere della plastica.

In India la plastica è ovunque, come le mucche. E nella baraccopoli di Mumbai, la più grande al mondo, dove in un chilometro e mezzo quadro – pari alla metà di Central Park, per dare le misure – abitano un milione di persone, c’è chi alla plastica deve dedicare la sua intera esistenza.

Me lo spiega la nostra guida Alam: «Qui abita chi non conosce nessuna arte. C’è chi costruisce templi hindu in legno, chi fabbrica il sapone, chi sa cucire. E chi invece non sa fare nulla. Chi non sa fare nulla viene ad abitare qui». Alam racconta che nel «quartiere della plastica», così lo chiama, abitano e lavorano uomini soli, che dedicano dodici ore al giorno al lavoro. Iniziano a svolgere i loro compiti alle nove del mattino per concludere alle nove di sera, spostare gli attrezzi del lavoro, stendere un telo e dormire dove hanno lavorato tutto il giorno, chiudendo soltanto la saracinesca. 

Non possono avere una famiglia perché non avrebbero il tempo di vederla. Ma soprattutto perché abitano in un’aria tossica, dove la plastica brucia. 

Li ho visti con i miei occhi, questi uomini che strappavano rifiuti di plastica a mani nude, circondati da montagne di sacchi. Con il volto coperto, in buie stanze che davano sui vicoli, tritavano la plastica in piccoli frammenti, per poi mandarla a bruciare. 

In India i rifiuti sono ovunque. Nelle strette vie di Dharavi a Mumbai, sulle acque sacre del Gange a Varanasi, tra le dune del deserto vicino a Jaisalmer. In un Paese che conta quasi un miliardo e mezzo di persone e che dal 2023, superando la Cina, è diventato lo Stato più popoloso al mondo, la quantità di rifiuti e plastica abbandonati in strada ogni giorno rappresenta un problema immenso. Le campagne e le periferie indiane negli ultimi anni si sono trasformate in discariche a cielo aperto, ma il problema si estende sempre più anche ai centri città, dove vivono adulti, anziani, bambini e mucche.

Non sono in grado di quantificare il numero di mucche che ho incontrato in sole due settimane. Mucche da sole per le strade, lente, in mezzo alla frenesia e al caos di motorini e tuk tuk. Mucche che non mangiavano erba, ma rifiuti. Quante mucche ho visto masticare cartoni, bottigliette, sacchetti. Ho visto mucche addirittura litigare per cartoni, bottigliette, sacchetti. Mamme che passavano il cartone al proprio vitellino, per riprendere a scavare con il muso tra le montagne di rifiuti. Ho scoperto che nel 2019 è stato effettuato un intervento per rimuovere dallo stomaco di una mucca 52 chilogrammi di plastica. I chirurghi della Tamil Nadu Veterinary and Animal Sciences University di Vepery, dopo quattro ore di intervento, sono riusciti a estrarre i rifiuti che occupavano circa il 75 per cento del rumine dell’animale, ovvero una delle quattro camere dello stomaco. Sul caso hanno girato anche un film, Plastic cow.

Più di cinquanta chili di plastica in un solo animale. In un paese come l’India che produce quasi 4 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno, cinquanta chili sembreranno quasi pochi. Pare che nel continente indiano l’utilizzo di plastica pro-capite sia in realtà piuttosto basso – 11 chili all’anno, contro i 109 chili all’anno degli Stati Uniti – ma con una popolazione di 1,35 miliardi di persone questo si traduce in 550.000 tonnellate di rifiuti di plastica mal gestite, che raggiungono l’oceano ogni anno, dal momento che più della metà di questi rifiuti non vengono riciclati. 

Una delle tappe successive del mio viaggio è stata Delhi. Una città dove ho scoperto che, respirando l’aria, si fumano sette sigarette al giorno – stando ai dati del World Air Quality Report 2017-2021. Delle 50 città più inquinate al mondo 35 sono indiane. A Delhi ho incontrato clacson, venditori ambulanti, street food. E, ovviamente, rifiuti. La gente che vive per strada prepara piccoli cumuli di rifiuti per fare dei falò e scaldarsi la sera. Camminando per i marciapiedi dopo il tramonto non è raro incontrare fuocherelli sparsi qua e là, composti da verdure appassite, fogli di giornale e plastica. Ho scoperto che proprio vicino a Nuova Delhi, a sud, si trova una montagna di rifiuti alta 45 metri. Si chiama Okhla ed è una discarica a cielo aperto composta da migliaia di sacchetti di plastica e oggetti di uso quotidiano. 

Anche ad Okhla, come in altre discariche indiane, lavorano i Safai Saathis. Sono i «raccoglitori di rifiuti informali»: 4 milioni di persone che nelle discariche selezionano e suddividono gli scarti riciclabili che poi vendono ad aziende che si occupano di riciclaggio. Sono stati imposti nel 2017 dal governo indiano per permettere al Paese di arginare soprattutto la questione legata alla plastica. Il governo del primo ministro Narendra Modi ha inoltre lanciato la campagna Clean India, che prevede di ripulire almeno 600 discariche in diverse città entro il 2026. L’India genera non soltanto i 4 milioni di plastica di cui abbiamo parlato prima, ma anche un totale di 62 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno, di cui la metà vengono raccolti nelle discariche. Secondo le previsioni di rapida urbanizzazione e crescita demografica, il Paese potrebbe arrivare a generare 165 milioni di rifiuti entro il 2030.

Basti calcolare che ogni giorno vengono riversate all’interno della sola discarica Okhla circa 12 mila tonnellate di rifiuti. Il 90% sono donne costrette a lavorare qui come Safai Saathis in mancanza di alternative, così come bambini, migranti e membri delle caste più basse. E ogni giorno, all’interno di questa discarica, si aggirano decine di avvoltoi, cani e mucche. 

Non esagero quando dico che in India i rifiuti e le mucche sono ovunque. Anche sulle sponde del Gange, il fiume più sacro al mondo. Sulle sponde del Gange, tra i ghat di Varanasi, ho trovato sulla mia strada brahmini – i sacerdoti, veri o finti, appartenenti alla casta hindu più alta – mucche, cani, capre, collane di fiori, incensi, aquiloni. E rifiuti. Decine e decine di sacchi colorati, colmi di offerte, che vengono accantonati sulle sponde del fiume o trasportati sulle barche, per poi essere gettati nelle acque sacre. 

Il fiume Gange – che dall’Himalaya va a delta nel Bengala – fornisce acqua potabile a quasi due miliardi di persone, trasporta circa 110 mila tonnellate di plastica all’anno e, dopo il fiume Yangtze in Cina, è il fiume più inquinato al mondo, ovvero quello che in assoluto scarica più immondizia di plastica in mare. Il Gange, quello stesso fiume dove vengono disperse le ceneri di decine di indiani ogni giorno, quello stesso fiume che trasporta mille tonnellate di plastica al giorno, resta il luogo più spirituale, affascinante e fuori dal tempo che ho incontrato nel mio viaggio. Un luogo enigmatico, non facile da comprendere, ma che è difficile immaginarsi diverso in futuro. Davanti alla quotidianità degli abitanti di Varanasi, che ogni giorno in quelle acque fanno il bagno e il bucato, per pulire anima e vestiti, viene quasi il pensiero che sia giusto che, soltanto lì, rimanga tutto così com’è. Rifiuti e mucche inclusi.