“Zona Militare. Divieto d’Accesso”

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di Ilaria Corrias e Asya Turchi

“Quando scopriamo qualcosa di non vero, la verità ci invia dei piccoli segnali per farci cercare ancora: questo è quello che chiamiamo dubbio. I pezzi del puzzle che non si incastrano alla perfezione, si chiamano dubbi” (Pinoki-o, Jo Soo-won e Shin Seung-woo, 2014)

La Sardegna si porta cucita addosso l’immagine di Eden incontaminato che la natura ha voluto regalare al Mediterraneo. Pastorale dalla trama lungamente romanticizzata, è concepita come terra estranea alle logiche dello spazio e del tempo che torna a esistere solo come meta delle ferie estive. 

Come tutti i territori del meridione italiano, subisce anch’essa la condanna di vedere la sua complessità appiattita dallo sguardo continentale. Chi abita l’isola tuttavia è ben consapevole di una realtà che non fa parte dell’immaginario del turista. La sua esistenza è costantemente ricordata dai chilometri di filo spinato che percorrono vastissimi territori, corredati da cartelli riportanti parole molto chiare: “Zona Militare. Divieto d’Accesso. Sorveglianza armata”.

I cartelli sono monito di una storia che ha inizio più di settant’anni fa. Con l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico nel 1949, infatti, vennero identificate alcune zone di diverse regioni a statuto speciale che, per caratteristiche territoriali e demografiche, risultavano più adatte all’insediamento dei poligoni per le esercitazioni militari. La Sardegna è così diventata sede di più del 60% delle basi militari presenti in tutto il territorio nazionale, adibite alle esercitazioni via mare, terra e aria. Le ragioni degli insediamenti sono da ricercarsi nella volontà della NATO (alleanza militare tra i Paesi del blocco occidentale istituita dal Patto Atlantico) di difendersi da possibili attacchi da parte dei paesi firmatari del Patto di Varsavia, ovvero il blocco sovietico, nella cornice della Guerra Fredda.

Possiamo individuare quattro zone militari preminenti sull’isola: il Poligono di Capo Frasca, nel comune di Arbus (attualmente 14 km2 di estensione, senza considerare le relative zone aeree e marittime); il Poligono di Capo Teulada, nella provincia del Sud Sardegna (74,5 km2 via terra e 750 km2 di restrizione aerea e navale, che lo rendono uno dei più grandi poligoni d’Europa); il Poligono interforze di Salto di Quirra (130 km2), che comprende il poligono a terra di Perdasdefogu (NU) e quello a mare di Capo San Lorenzo a Villaputzu (SU); il Poligono dell’isola di Santo Stefano, recentemente riconvertito, situato nell’arcipelago della Maddalena, dove si trovava il deposito munizioni. Si aggiungono ad essi l’aeroporto militare di Decimomannu, il deposito carburanti nel cuore di Cagliari e le caserme dell’aeronautica, dell’esercito e della marina militare. In totale, l’isola è interessata per 35.000 ettari di terreno e 20.000 km2 via mare dall’occupazione militare.

A pagarne le conseguenze furono in primo luogo i pastori, agricoltori e pescatori delle zone sopra citate. Gli espropri terrieri a cui furono soggetti li videro infatti costretti ad abbandonare le proprie case e vendere il bestiame, così privandoli della loro quotidianità. Durante i periodi di esercitazione, nelle zone militari è interdetto il transito, la navigazione, la pesca e il pascolo, motivo per cui la Regione autonoma della Sardegna stanzia degli indennizzi per i lavoratori impossibilitati a svolgere le loro mansioni per lunghi periodi dell’anno.

Vanno considerate inoltre ulteriori conseguenze perlopiù sconosciute agli abitanti d’oltremare, quali le limitazioni allo sviluppo economico, la negazione dei più basilari diritti umani e le inquietanti quanto ambigue conseguenze sul piano sanitario e ambientale.

Proprio dal punto di vista ambientale è necessario partire per provare ad avere un quadro esaustivo dell’impatto dell’occupazione militare in Sardegna. Le vicende storiche e giudiziarie che hanno interessato, negli ultimi decenni, il Poligono Interforze del Salto di Quirra sono esemplificative dell’anomala situazione dei territori militarizzati.

Il caso Quirra

Dall’anno della sua costituzione nel 1956, il Poligono Interforze del Salto di Quirra è stato centrale per la sperimentazione di sistemi di puntamento e di propulsione missilistica da parte di enti pubblici e privati. Dagli anni ‘80 fino ai primi anni 2000 furono costanti i brillamenti di munizioni e bombe fuori uso provenienti dagli arsenali dell’Aeronautica Militare di tutte le Regioni d’Italia, di missili Nike e di missili anticarro Milan. Le risultanze di indagini su aria, acque, suolo e tessuti animali dell’area interessata dal poligono di terra e sul mare effettuate tra il 2010 e il 2013 hanno di fatto rilevato concentrazioni di diversi metalli superiori ai limiti di riferimento, comportando un danno ambientale non indifferente. 

Le rilevazioni (condotte, tra gli altri, anche dall’ARPAS – Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Sardegna) furono affiancate da diversi studi epidemiologici indipendenti, volti ad individuare eventuali conseguenze sanitarie sugli individui che, a vario titolo, frequentavano l’area del PISQ. A sollevare i primi dubbi in merito fu, nel 2001, l’oncologo ed ex sindaco di Villaputzu (SU) Antonio Pili, che segnalò un eccesso di tumori del tessuto emolinfopoietico localizzato nella frazione di Quirra. Nonostante la successiva smentita del fenomeno, la segnalazione produsse un effetto valanga.

Nel 2010, la relazione di due medici veterinari delle ASL di Lanusei (NU) e Cagliari e la conseguente apertura dell’inchiesta sulla “sindrome di Quirra” portò il caso all’attenzione nazionale. I Dr. Mellis e Lorrai, notando l’insorgere di problematiche genetiche negli animali e gravi malattie tumorali nelle persone che si occupavano della conduzione degli allevamenti intorno alla zona perimetrale della base di Capo San Lorenzo, sollecitarono un approfondimento da parte dell’Autorità Sanitaria. L’anomala quantità di torio misurata nelle salme della maggior parte dei pastori che frequentavano il PISQ rese ancora più urgente la necessità di trovare eventuali correlazioni causa-effetto.

Nel frattempo, alla luce di 168 morti sospette tra pastori, cittadini dei comuni limitrofi e personale militare, il procuratore capo di Lanusei Domenico Fiordalisi rinviò a giudizio otto comandanti e due ufficiali a capo del Poligono dal 2002 al 2010 per omissione dolosa e aggravata di cautele contro infortuni e disastri. In particolare si riteneva che, non avendo interdetto l’area militare alla popolazione locale, i comandanti avessero “cagionato un persistente e grave disastro ambientale con enorme pericolo chimico e radioattivo per la salute di decine di migliaia di animali da allevamento (bovini, ovini e caprini), di decine di pastori, del personale civile e militare della base e dei numerosi cittadini frequentanti il Poligono (esteso quasi 130 kmq) ed i centri abitati ad esso vicini”. Inoltre, avrebbero omesso di dotare il personale militare delle protezioni necessarie alla loro salvaguardia durante le operazioni di smaltimento di bombe e munizioni.

Il processo Quirra, che l’on. Mauro Pili (Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito) ha considerato soggetto sin dagli inizi del percorso procedurale a “una gravissima menomazione sia nella sostanza che nel metodo”, si è concluso nel novembre del 2021 con l’assoluzione di tutti gli imputati “perché non c’è prova idonea che abbiano commesso il fatto contestato”. Dal processo fu escluso un esaustivo rapporto della Squadra Mobile di Nuoro in cui non solo si ribadiva la mancata recinzione dell’area del poligono – fattore che permise agli animali di pascolare liberamente al suo interno – , ma si esaminavano anche le schede tecniche del materiale bellico sperimentato da alcune ditte private (MBDA, Oto Melara, Europaams – joint venture tra MBDA e Eurosam) all’interno del poligono. Tra questi, si segnalarono propellenti contenenti materiali altamente inquinanti e nocivi per la salute come il cadmio, il piombo e il tungsteno, proiettili e granate al fosforo e quattro casse di varie dimensioni conservate senza le dovute cautele contenenti materiali radioattivi tra cui uranio impoverito e trizio. La procura di Lanusei riuscì anche ad accedere alla registrazione di una conversazione tra Cesare Contu e l’ex militare Mauro Artizzu in cui quest’ultimo descriveva le illecite operazioni di smaltimento avvenute nel Poligono. Queste consistevano proprio nel far brillare armi e munizioni contenenti materiali inquinanti e rischiosi per la salute degli operatori, soprattutto alla luce della raccolta dei residui, perlopiù avvenuto senza utilizzare guanti, mascherine e tute protettive. 

Quando Artizzu fu chiamato a testimoniare negò quanto riportato all’interno della registrazione, affermando di aver voluto “prendere in giro Contu”. Tali operazioni furono inoltre tenute nascoste al medico competente presso il PISQ, Pierluigi Cocco, che non potè così predisporre alcun programma di sorveglianza sanitaria.

Nonostante le analisi e le raccolta di più di cento testimonianze rese da militari, allevatori, abitanti dei paesi limitrofi e familiari delle 168 vittime citate durante il processo, il perito valutò solamente i residui presenti al momento dell’indagine senza considerare ciò che era stato disperso nell’ambiente durante le attività militari antecedenti al 2012, non fece le comparazioni statistiche dei dati acquisiti sul torio dentro e fuori le aree ad alta intensità militare e non fece alcun campionamento nelle aree del Poligono più inquinate (come i fondali marini di Capo San Lorenzo, in cui erano stati segnalati numerosi oggetti inquinanti bonificati solo dopo il sequestro giudiziario del Poligono).

Negli anni del processo, in quelli che lo precedettero e in quelli che lo seguirono non fu inoltre mai istituita una strategia di sanità pubblica ben definita. Al di fuori degli studi indipendenti e delle ricerche effettuate per conto dell’inchiesta non sono mai stati istituiti registri di patologia né sistemi di sorveglianza ambiente-salute. La caduta in prescrizione del reato nel 2022 non ha reso possibile fare ricorso in appello.

Così le vicende di Quirra – nonostante l’esito del processo – rimangono avvolte nel dubbio. Le contestazioni delle associazioni locali e delle persone colpite da ciò che è accaduto all’interno del Poligono sono quei piccoli segnali che hanno spinto noi a parlarne, e i sardi a cercare ancora. Forse mancano ancora dei pezzi, o forse sono tutti davanti a noi ma inseriti nel punto sbagliato.