Essere uno straniero senza documenti ai tempi del Covid

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“Durante la pandemia sarebbe stato importante ricordarsi dell’esistenza di queste persone”. A parlare è la dottoressa Cecilia Fazioli dell’INMP (Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà). “Queste persone” sono gli stranieri senza documenti. Se nel 2020 accedere ai servizi sanitari è stato più difficile per tutti, per loro è stato quasi impossibile.

Molte delle procedure messe in atto per la gestione dell’emergenza Covid, infatti, non hanno i tenuto conto dei codici STP (Straniero Temporaneamente Presente) ed ENI (Europeo Non Iscritto), ovvero i sostitutivi della tessera sanitaria per i migranti senza permesso di soggiorno. La mancata considerazione di questi titoli, unita alle difficoltà di ottenerli mentre molte strutture sanitarie e amministrative chiudevano al pubblico, ha reso loro più complicato l’accesso alla diagnosi e più gravi i sintomi da Covid-19.

Invisibili al sistema

Per fare un tampone, per esempio, occorreva la ricetta dematerializzata. “Questo – ha spiegato Fazioli – ha creato molti problemi ai titolari di STP ed ENI: per i primi il rilascio della ricetta funziona solo a volte e con difficoltà, per i secondi invece non funziona proprio, perché sono normati a livello regionale e il sistema centrale non li riconosce. E durante una pandemia in atto, in una situazione di bisogno – come può essere la prescrizione di un tampone – è ben diverso poter chiamare il medico di famiglia,  piuttosto che dover rispettare le procedure e le attese degli ambulatori dedicati a queste categorie di persone”.

Ne è un esempio il caso dell’ambulatorio di SOKOS – associazione di Bologna che offre assistenza socio-sanitaria gratuita a persone in condizione di esclusione sociale – che nei mesi più critici della pandemia. Una volta riaperto, ha iniziato a ricevere solo su prenotazione, pagando in autonomia i presidi medici (mascherine, gel disinfettante, ecc.) per poter lavorare in sicurezza.

“Se già prima della pandemia avere un’impegnativa era complicato, – prosegue Fazioli – nel 2020 il problema è emerso in maniera plateale. Non esistono procedure standardizzate che garantiscano l’accesso alle cure a queste persone. Per i migranti si sono moltiplicate le difficoltà di entrare in contatto e comunicare con i servizi sanitari. Di fatto sono diventati invisibili al sistema di gestione e al Sistema Sanitario Nazionale”.

Una soluzione possibile? Secondo Fazioli, occorrerebbe “standardizzare i percorsi per chi ha diritto ad accedere al SSN”. Con meno eccezioni rispetto ai canali di accesso, diventa più facile non lasciare indietro nessuno nei casi d’emergenza.

Il calo di attivazioni STP durante il lockdown

Nei mesi più duri della pandemia, gli stranieri irregolari di paesi extra UE non hanno avuto problemi soltanto nell’utilizzare il codice STP (il tesserino che riconosce loro una serie di cure), ma anche nell’ottenerlo.

Non si può quantificare con precisione il calo delle attivazioni dei tesserini, perché in generale è difficile contarli. Secondo quanto spiegato al Manifesto dal direttore dell’INMP Gianfranco Costanzo, le banche dati STP ospitano orientativamente 700mila tessere, ma capire a quanti individui corrispondano è praticamente impossibile. I codici sono anonimi e un singolo può essere inserito di nuovo se decide di rinnovare il tesserino, che ha validità semestrale.

Complicato è anche il tracciamento, poiché non tutte le regioni hanno un’anagrafe digitale e i punti di rilascio sono molteplici (Aziende Sanitarie Locali, Aziende Ospedalieri, ambulatori stranieri, Centri Unici Prenotazione, pronto soccorso, ecc.). In alcune zone, come la provincia di Pavia, gli STP sono ancora registrati su carta.

In un quadro statistico generalmente vuoto e frammentato, che spesso riflette una mancanza di interesse, ci sono eccezioni positive. A differenza di Toscana e Lombardia, le regioni Lazio ed Emilia-Romagna hanno fornito i dati relativi alle attivazioni mensili di tesserini STP (le attivazioni non corrispondono esattamente agli individui). I dati sono stati ottenuti tramite FOIA (Freedom of Information Act, una legge che permette di inviare alle Pubbliche Amministrazione richieste di accesso civico a dati e documenti pubblici ma non pubblicati) e sono ora consultabili s questa pagina.

Quello che emerge è che nel pieno dell’emergenza sanitaria Covid-19 scoppiata alla fine di febbraio 2020 il rilascio dei codici è rallentato rispetto ai due anni precedenti. Un vero crollo a marzo e aprile, i mesi del lockdown duro, in cui gli uffici erano quasi tutti chiusi o difficilmente accessibili.

Grafico linee attivazioni STP Emilia-Romagna e Lazio: JuxtaposeJS Embed  

Nel caso del Lazio, una soluzione trovata dalle istituzioni per attenuare gli effetti della chiusura generalizzata degli uffici è stata prorogare la durata dei codici STP fino a dicembre 2020.

“Questo – ha raccontato Fazioli – ha almeno evitato ulteriori accessi ai servizi alle persone che avrebbero dovuto rinnovarlo, allo scadere dei sei mesi di validità, nel periodo tra marzo e dicembre”. Tuttavia, chi a inizio 2020 era in attesa di poterlo chiedere ha incontrato diverse difficoltà: CUP e consultori chiusi al pubblico o accessibili solo su prenotazione (spesso online); ambulatori stranieri a singhiozzo, con meno slot disponibili e solo su appuntamento; possibilità di ottenere il codice STP solo in caso di necessità immediata di cure d’emergenza e non per la prevenzione.

Il ritardo nelle diagnosi

I problemi di accesso a tamponi, visite e prescrizioni di farmaci dei tanti soggetti invisibili non sono rimasti senza conseguenze. Secondo uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato sullo European Journal of Public Health a febbraio 2021, i casi di Covid in cittadini non italiani sono stati diagnosticati circa due settimane dopo rispetto ai casi italiani. Il ritardo arriva fino a quattro settimane dopo nel caso di persone provenienti da paesi con un basso HDI (Human Development Index), l’indice con cui l’ONU valuta il grado di sviluppo di un paese in base all’aspettativa di vita, l’istruzione e il reddito nazionale pro capite.

In definitiva, i quasi 16mila stranieri (non si distingue tra con e senza documenti) presi in esame hanno ricevuto una diagnosi quando la malattia era più avanzata e i sintomi più gravi. Come si legge direttamente nello studio: “il ritardo nella diagnosi, probabilmente associato a condizioni cliniche peggiori, potrebbe spiegare l’aumento del tasso di ospedalizzazione, ricovero in terapia intensiva e morte che abbiamo osservato tra i cittadini non italiani rispetto ai cittadini italiani, specialmente in quelli provenienti da paesi a basso HDI”.

Viene infine ipotizzato che, tra le cause di questa diseguaglianza, ci sia il fatto che “l’assegnazione a un medico di base (il più probabile mediatore per la diagnosi precoce) avviene solo in presenza di uno status documentato”. Oltre a questo, barriere linguistiche, amministrative, legali, culturali e sociali, il timore di perdere il lavoro o di non poterci andare per obbligo di isolamento.

Un sondaggio dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che ha coinvolto oltre 30mila rifugiati e migranti nel mondo, quasi 7mila dei quali in Europa, amplia e conferma a livello internazionale quanto osservato dall’ISS: i principali motivi per i quali i migranti non hanno cercato assistenza medica in caso di sintomi sono legati al costo delle cure, alla paura di essere espulsi, alla mancanza di assistenza sanitaria o al fatto di non averne diritto. Tra le persone che non hanno cercato assistenza, il 18.6% non aveva uno status legale documentato, mentre quasi il 30% aveva un basso livello di istruzione.

Risulta infine che la maggior parte dei rifugiati e dei migranti intervistati abbia preso precauzioni per evitare l’infezione. Quando non l’hanno fatto è stato perché non potevano: per esempio, tra gli intervistati in Europa, per quasi 1 su 10 non è stato possibile evitare i mezzi pubblici, per il 14% non uscire di casa. In percentuali minori, si sono riscontrati anche problemi nel coprire adeguatamente naso e bocca e nel lavarsi le mani.

Questo articolo deriva dal progetto “Pandemia senza documenti – Gli invisibili e l’accesso alla salute”, curato da Ghezzi Anna, Lodovini Alessandro, Scannavini Matteo e Tonnini Benedetta con l’azienda Dataninja