L’educazione a distanza, il grande dibattito italiano

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Questo reportage di Alessandro Leone è stato pubblicato su brujulaglobal.com in due parti, il 5 e 12 aprile (prima parte e seconda parte). I dati sono aggiornati a quelle date.

Quando le scuole sono chiuse, Gaia si sveglia 10 minuti prima dell’inizio delle lezioni. Il rituale è sempre lo stesso: si trucca, si piastra i capelli, si veste e si siede di fronte al computer. A quel punto, l’insegnante fa l’appello, lei dice “presente” e spegne la webcam. “Non mi va di farmi vedere ma se devo almeno sono messa bene”, sostiene. Gaia è una studentessa romana di 12 anni al secondo anno delle medie e ha passato la maggior parte dell’anno scolastico in presenza. Al contrario, sua sorella Gaia, 16 anni, si è abituata a seguire le lezioni in Dad: “Non la considero scuola. In presenza ogni giorno era diverso, adesso invece sono tutti uguali. Mi manca il ‘diverso’”, afferma.

A un anno dall’inizio della pandemia, in Italia sono morte 110 mila persone. Il tema dell’educazione è entrato prepotentemente nel dibattito dell’opinione pubblica, che si divide per semplicità tra chi reclama il ritorno nelle scuole in presenza e chi le considera centri di contagio. Resta ancora da definire l’impatto sulla salute mentale, soprattutto dei giovani.

Per alcuni ospedali è già un’emergenza. Al Bambino Gesù di Roma, Stefano Vicari, responsabile della neuropsichiatria infantile, ha stimato l’aumento degli episodi di anoressia del 28% e dei tentativi di suicidio del 25%, mentre l’età dei pazienti continua a scendere. Anche la Fondazione Mondino di Pavia e i pronto soccorso del sud della Lombardia hanno registrato un incremento del 50% delle richieste di ricoveri nei reparti neuropsichiatria.

La stanchezza e la preoccupazione che stanno provocando la Dad e la gestione del sistema educativo è evidente in alcuni genitori, che spesso si scontrano con il malessere dei figli senza sapere come risolverlo. Allo stesso tempo, è palpabile nei professori, dalle elementari al liceo, sovraccaricati di responsabilità e in ansia per la propria salute e quella dei loro alunni. Gli effetti hanno appena cominciato a manifestarsi.

Le scuole durante la pandemia

Nella maggior parte delle scuole italiane, l’anno scolastico è cominciato il 14 settembre. Dal 6 novembre, il governo ha introdotto un sistema di tre colori –giallo, arancione e rosso– per definire la durezza delle restrizioni in ogni regione, dipendendo da alcuni fattori come l’indice Rt e l’occupazione delle terapie intensive.

In confronto ad altri grandi paesi europei, l’Italia ha chiuso le scuole 35 settimane, seguita dalla Germania (28), Regno Unito (27) e Spagna (15), secondo i dati dell’Unesco. Il nuovo primo ministro, Mario Draghi, ha chiuso nuovamente le scuole a marzo nelle zone rosse. Nelle gialle e arancioni, il 100% degli studenti segue le lezioni in presenza fino alla terza media, ma l’ultima parola spetta al governatore regionale, che può chiudere tutto, specialmente quando i contagi superano i 250 casi per 100mila abitanti.

Dopo Pasqua, verranno applicate alcune modifiche: nelle zone rosse tutti gli alunni fino alla prima superiore torneranno in classe, mentre gli amministratori locali potranno sospendere le lezioni in presenza quando la situazione sanitaria è particolarmente critica. “Se dovessi descrivere quest’anno con un parola sarebbe ‘incertezza’. Non ho lasciato neanche una penna o un libro nelle aule, perché avrebbero potuto chiuderle il giorno dopo”, racconta Francesca Sputore, insegnante di 27 anni in una scuola elementare di Vasto (Abruzzo).

I licei hanno dovuto cambiare completamente la loro struttura per assicurare, quando sono aperti, lezioni in presenza a tra il 50% e il 75% degli studenti, seguendo tre opzioni. Nella prima, si divide la classe in due con una metà in presenza e l’altra da casa; nella seconda, tutti sono in presenza un giorno o una settimana e il giorno o la settimana seguente seguono in Dad; nella terza, la classe si divide in tre parti, solo due gruppi assistono in presenza, l’altro si connette. In alcuni casi, per gestire grandi flussi di studenti, si sono stabiliti due turni, uno che va dalle 8 alle 14, l’altro dalle 10 alle 16.

Questo sistema trasforma la tecnologia in un elemento fondamentale, nonostante le possibilità di accesso a internet cambino in base al contesto familiare. Secondo l’Istat, 850mila giovani tra i 6 e i 17 anni non hanno computer o tablet; nel sud del paese la cifra aumenta fino a uno su cinque. Inoltre, quattro minorenni su 10 vivono in case affollate o devono condividere gli strumenti a disposizione con altri, come nel caso di Omayma, studentessa di 18 anni a Torino: “È molto limitante e poi non sono figlia unica. Dobbiamo condividere un computer in tre e a volte la connessione salta”.

Gli adolescenti come Omayma sono stati i più colpiti anche fuori dall’ambito scolastico perché la loro vita sociale si è ridotta a causa delle restrizioni. Uno studente su tre sostiene di sentirsi meno preparato con le lezioni in Dad, secondo un report di Save the Children, e molti si dicono stanchi, preoccupati, ansiosi, nervosi, apatici. “Mi manca sentire la chiacchierata in sottofondo, l’intervallo, quando ci si riunisce tutti a imprecare contro il prof di fisica che ci ha riempito di compiti.  Mi manca anche vedere, toccare le persone e il rapporto che avevamo costruito con i prof durante 5 anni. È stato un anno sprecato, che non tornerà più indietro”, pensa Omayma.

La posizione dei professori

A gennaio, il 70,4% dei professori si dichiarava contro il ritorno alle lezioni in presenza, secondo un sondaggio dell’Inapp basato su 800 interviste. In quel momento, i licei stavano per riaprire dopo la pausa natalizia e le forti restrizioni dovute alla seconda ondata di covid-19. Una ventina di scuole romane condividevano lo stesso slogan, spesso assieme agli studenti: “Ritorno sì, ma in sicurezza”. Tra le nuove misure c’era l’introduzione dell’obbligo della mascherina, anche da seduti.

Per Maria Grazia Nuzzo, professoressa di Italiano, Geografia, Storia e Latino al Liceo Margherita di Savoia della capitale, il sistema scolastico pubblico soffre alcune deficienze strutturali: “Quando ci sono classi numerose, non puoi fare miracoli. Quando i trasporti a non funzionano già normalmente perché la metro non regge il peso nelle ore di punta, non possiamo fare molto. Molti colleghi che hanno avuto patologie pregresse importanti non sono rientrati. Colleghi che assistevano genitori anziani non sono rientrati”, afferma. Tra isolamenti e contagi, il suo liceo ha potuto contare solo su 45 dei 90 docenti.

In una metropoli come Roma, l’assenza di un adeguato trasporto pubblico, criticato dalla cittadinanza, ha obbligato alcune scuole ad adottare altre misure per far fronte al problema. Alcuni hanno diviso l’entrata tra le 8 e le 10 di mattina per impedire che studenti e lavoratori invadessero bus e metro durante l’ora di punta. “L’Atac ha dettato le regole senza potenziare il servizio”, sottolinea Claudia De Rosa, professoressa di Latino e Greco al Liceo Augusto.

Con il sistema conosciuto come Didattica Digitale Integrata (Ddi), che mischia studenti in aula con altri in Dad, i professori hanno dovuto superare molte difficoltà per assicurare lo svolgimento delle lezioni. Nel liceo dove lavora De Rosa, le classi superiori ai 17 alunni sono state divise in tre gruppi, due in presenza e uno in casa. Si alternano continuamente e condividono lo stesso spazio fisico. Quando c’è un compito, la docente deve prepararne uno per i presenti e un altro per i ragazzi in Dad, da svolgere al loro ritorno in aula.

“Io non lo so se conta la psicologia di un lavoratore ma ti assicuro che noi insegnanti non ne possiamo più. Siamo provati, provati da questa propaganda che ci vuole fannulloni, perché per tanto tempo la dad è stata considerata non scuola. Siamo provati dalla paura del contagio”, si sfoga De Rosa. A 56 anni e con un’insufficienza valvolare aortica, teme che il Covid possa avere serie conseguenze sulla sua salute. “Se c’è una scala di valori la salute è al primo posto. E la salute è soprattutto di chi insegna. A scuola ci siamo noi, non ci sono dei robot e mediamente la nostra età è alta”, ricorda.

L’ultimo decreto del governo permette lezioni in presenza ai minori che hanno bisogno di assistenza speciale, come nel caso degli autistici o di chi soffre di problemi d’apprendimento. Federica Mangano, maestra 23enne in una scuola elementare di Novara, ha dovuto gestire contemporaneamente un bambino in presenza e una classe interna in Dad: “Se poi arriva a scuola e vede che non c’è nessuno come si può sentire un bambino che già a sei anni percepisce di essere diverso? Ulteriormente diverso”.

La sensazione comune a tutti i docenti intervistati è che l’educazione non sia stata considerata tra le priorità del governo.  “Mi sembra che sia chiaro che i bambini stanno male, che ci sono problemi di salute mentale, che sono aumentati i disturbi legati all’ansia, all’autolesionismo. Ma si fa finta niente perché è più importante risolvere la crisi economica”, pensa Mangano. De Rosa, invece, sostiene che il personale scolastico avrebbe dovuto essere tra i primi gruppi vaccinati per tornare a riaprire le scuole: “L’educazione non è una priorità anche per questo”. Quasi il 60% dei lavoratori del settore ha ricevuto la prima dose, ma solo l’1% è completamente immunizzato.

Gli universitari in Dad

Una delle immagini più rappresentative della pandemia in Italia è quella che ritrae lo studente universitario mentre festeggia la laurea con la tradizionale corona d’alloro. Mangano era ancora un’alunna quando il covid-19 arrivò in Romania, dove si trovava in Erasmus. Di ritorno a casa, lo scorso novembre si è laureata a Padova in collegamento da Novara: “Mi è dispiaciuto tanto perché in Italia la laurea è la conclusione di un percorso, è molto sentita e non aver fatto niente è stato deprimente”, racconta.

Gli universitari sono stati tra i grandi dimenticati dell’emergenza sanitaria. “Io mi guardavo le conferenze stampa del presidente del consiglio e non sapevo mai da studentessa universitaria cosa avrei dovuto fare. Dovevo cercarlo su internet”, afferma Ygnazia Cigna, redattrice di Change the Future e studentessa di 21 anni. Durante il primo lockdown è tornata per un periodo a Mestre per stare con la sua famiglia, prima di rientrare a Roma, dove studia alla Sapienza. “Per me c’è voluto un anno per attivare il meccanismo del ‘mi alzo, accendo il pc, devo seguire e stare attenta’. C’è voluto un anno per attivare il meccanismo del ‘se non c’è nessuno che mi guarda’, lo devo fare per me stessa’”, ammette. Il ritorno alle lezioni in presenza è durato solo due settimane, fino all’introduzione della regione in zona rossa. Molto studenti sono tornati nelle loro case per continuare a seguire in Dad.

“Da ottobre a oggi ho seguito poche lezioni”, riconosce Federico Brignacca, redattore di Change the Future e studente di 24 anni che vive con Ygnazia. Si è trasferito nella capitale per seguire un master mentre è iscritto a una triennale in Scienze Politiche a Pavia: “La Dad ha dato un impulso notevole alla mia pigrizia fisica. Mi sveglio alle 10 e sto due ore nel letto a fare niente”.

“Dicono che questa sia un’età di cambiamento. Meglio continuare a vivere il progresso piuttosto che pensare a quella che ero”, dice Omayma. Tra qualche mese uscirà dal liceo e dovrà scegliere cosa studiare in università: “Io sono indecisa se fare qualcosa di più materiale, come infermieristica, o Scienze Politiche”. Fino a quel momento, passerà ancora del tempo in Dad, una soluzione temporanea diventata un incubo a lungo termine.    

I problemi preesistenti

L’educazione in Italia preoccupa non solo per il suo impatto sulla salute mentale ma anche per la sua perdita di qualità. Lo scenario già non era del tutto positivo prima della pandemia, che potrebbe peggiorare alcuni problemi preesistenti. Il paese è il quinto per diserzione scolastica nell’Ue, dopo Spagna, Malta, Romania e Bulgaria: il 13,5% non prosegue gli studi, secondo i dati Eurostat del 2019. Non ancora si conosce l’impatto del Covid sull’ultimo anno, ma Save The Children stima che entro la fine del 2021 oltre 34 mila adolescenti potrebbero abbandonare. Infatti, il 28% degli alunni intervistati dall’organizzazione ha dichiarato che almeno un compagno di classe non frequenta più le lezioni. “In presenza i ragazzi reagiscono, si riesce a riprenderli e a lavorarci. In Dad stanno cedendo, li stiamo perdendo”, dice Nuzzo. “Alcuni hanno abbandonato, anche gli insospettabili”, conferma De Rosa.

Lo stato della sanità nelle diverse regioni e le ordinanze decise dai governatori locali hanno contribuito a evidenziare il divario tra il ricco nord e il povero sud. Uno studente di un liceo di Reggio Calabria ha frequentato la scuola in presenza per 35 dei 97 giorni previsti dal calendario, mentre uno di Firenze per 75 dei 106, secondo lo studio di Save The Children condotto su otto capoluoghi di provincia.

La differenza cresce con gli alunni più piccoli. A Bari, un bambino è andato all’asilo 48 giorni su 107, a Milano invece non è mai mancato. Quando i genitori devono lavorare “i bambini vengono lasciati con i nonni e il paradosso è che chiudendo si mettono a rischio le fasce deboli della popolazione”, afferma Alessandro Paccagnini, fondatore della Rete per la scuola in presenza.

Nonostante sia informatico, Paccagnini si schiera contro la Dad, che considera un surrogato della scuola. Ha tre figli: un bambo all’ultimo anno delle elementari, una bimba in terza media e un ragazzo in secondo liceo. “Mia figlia faceva nuoto agonistico. Da un anno non vede più la piscina, è aumentata di dieci chili. Mio figlio più piccolo ha delle difficoltà in italiano. A quell’età una persona apprende cose che sembrano delle sciocchezze, ma non lo sono”. La sua protesta è iniziata come quella di molti genitori: portando i figli di fronte alle scuole per studiare all’aperto. Tuttavia, con il nuovo decreto varato da Draghi a inizio marzo, che è tornato a chiudere le scuole in varie zone, si è reso conto che era necessario coordinare il crescente scontento a livello nazionale. In pochi giorni è nata la Rete per la scuola in presenza, che il 22 marzo ha organizzato manifestazioni in oltre 34 città.

Dopo Pasqua, le scuole torneranno a essere in presenza nelle zone rosse fino alla prima media, ma Paccagnini non è ancora soddisfatto: “Vogliamo coprano al 100%. Continueremo a protestare perché questo è inaccettabile”. La sua convinzione è che l’ambiente scolastico rappresenti più di un semplice spazio di apprendimento. Si tratta del principale luogo di socializzazione per bambini e adolescenti, che sono rimasti senza teatri, cinema, palestre, ancora chiuse. “Mi viene da ridere quando parlano di ragazzi che vanno a ubriacarsi nei bar. Sono gli unici posti che sono rimasti”, avverte.

Gaia, studentessa romana di 13 anni, sente sulle sue spalle questo problema: “Quando non vado più a scuola sono meno tranquilla, sono molto in ansia. Prima uscivo con le mie amiche, andavo a fare passeggiate al parco o shopping. Adesso sto sempre con il telefono, guardo la tv, gioco alla Play, quindi è brutto. Mi sto un po’ spegnendo. Io non ero pigra, ero sempre attiva e piena di energie”. Alla sua giovane età le resta ancora molto tempo prima di entrare nel mercato del lavoro, però c’è chi decide di non lavorare né studiare, e in questo caso l’Italia ha i peggiori indicatori dell’Unione Europea: il 22,2% dei giovani tra i 14 e i 22 anni si trova in questa situazione.

Sicurezza o necessità

La domanda che tutti gli interessati si pongono è sempre la stessa: le scuole sono sicure o no? La posizione del governo è chiara: “Le evidenze scientifiche dimostrano che le scuole sono un punto di contagio molto limitato [se si seguono le restrizioni]. Più l’età si alza e più le attività che possono innescare focolai aumentano», ha dichiarato Draghi alla fine di marzo. Con “attività” include anche il movimento nei mezzi di trasporto, ma la mancanza di dati precisi sul contagio scolastico alimenta la polarizzazione sul tema.

Negli ultimi mesi sono stati pubblicati e condivisi vari studi. Quello condotto dall’epidemiologia Sara Gandini e pubblicato su Lancet Regional Health – Europe scarta l’idea che esista “una correlazione significativa tra diffusione del contagio e lezioni in presenza”. Per la Gandini, la crescita dei casi registrata tra ottobre e novembre 2020 non è dipesa dal ritorno nelle aule, perché il tasso di positività tra gli studenti sui tamponi effettuati era meno dell’1%. Tuttavia, vari esperti hanno criticato lo studio per il metodo di analisi utilizzato e per la sua scarsa affidabilità, dato che si concentra solo sui dati tra il 12 settembre e l’8 novembre, una fase ancora precoce della seconda ondata, che non permette di valutare l’impatto delle nuove varianti del virus.

Tra i più critici c’è il medico Andrea Casadio, che in un articolo su Domani ha accusato Gandini di essere amministratrice di una pagina Facebook con posizioni contrarie ad alcune restrizioni. Come risposta, cita gli studi di Science e Nature Human Behaviour, che considerano efficace la chiusura delle scuole e sostengono che i ragazzi tra i 10 e i 19 anni hanno più probabilità di trasmettere il Covid in famiglia. Nel testo di Science, si legge che questo tipo di misura riduce l’incidenza e la mortalità del 60%.

A gennaio, il ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, Stefano Merler, ha presentato un modello matematico per misurare l’impatto della riapertura delle scuole sull’indice Rt. I risultati svelerebbero che nelle zone rosse e arancioni non sembrerebbe aver avuto grandi conseguenze; sì invece nelle gialle. Kessler ha comunque sottolineato la mancanza di dati certi e affidabili.

L’opinione pubblica si è dedicata spesso alla caccia ai responsabili dell’aumento dei contagi. Molti giornali hanno alimentato la polemica pubblicando foto dei Navigli di Milano o delle piazze di Bologna e Napoli affollate di giovani senza distanziamento. Così, molti si sono sentiti inclusi nel calderone degli “irresponsabili”. “Si basano su un pregiudizio”, dice Omayma. “Noi l’abbiamo subita molto questa cosa, non siamo stati parte attiva di questo processo”, ribadisce. Lo stesso pensa Sofia: “Si sta dando la colpa solo ai giovani, ma i responsabili sono di tutte le età”.

“La sensazione è che i minori si contagiano soprattutto sui mezzi, a casa o stando fuori con i compagni”, commenta Nuzzo. Nel periodo tra l’1 e il 17 marzo, i positivi registrati tra gli 0 e i 19 anni rappresentavano il 16,8% del totale, secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità. Il Comitato Tecnico Scientifico, che raccomanda al governo le misure da attuare, sostiene che i casi tra gli 0 e i 18 anni hanno superato il numero dei contagi tra i maggiori di 20 a gennaio.

Per Paccagnini, la chiusura delle scuole è una decisione politica “non dettata da regole scientifiche”. “Per paura di mettere mano a qualsiasi intervento straordinario, per esempio sul trasporto pubblico, si è preferito chiudere”, pensa. Solo poche regioni offrono dati sul contagio scolastico, come il Veneto, dove il 50% dei casi registrati tra gennaio e febbraio si è verificato tra i contatti “extrascolastici”, cioè fuori dalle aule. In Emilia-Romagna, l’incidenza tra i 6 e i 18 anni ha superato i 350 casi per 100mila abitanti alla fine di febbraio, ma potrebbe dipendere in parte anche dall’alto numero di tamponi effettuati nelle scuole.

La polemica sulla Dad ha contribuito a polarizzare l’opinione pubblica fino a creare una battaglia tra il diritto alla salute e il diritto all’educazione. Ma nel il sistema educativo italiano i due sono legati: “La sostanza è questa: la DAD non ci piace, ma non piace a nessuno. Non piace a noi, non piace agli studenti. Non ci piace per niente perché siamo stanchi. Più andiamo avanti e più perde veramente di forza, perché ci stanchiamo tutti”, afferma Nuzzo.