Scomparsi nel Mediterraneo: oltre i numeri gli esseri umani

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Qualche settimana fa, durante un discorso con un amico che lavora nell’ambito dell’umanitario, è uscita una riflessione che non può lasciare indifferenti. Fra qualche anno, forse cinquanta o cento, sui libri di storia si parlerà di questo periodo storico come quello delle “morti nel Mediterraneo”. Così come per l’Olocausto degli ebrei, la domanda che uscirà spontanea alle generazioni future sarà: come hanno fatto tutte le persone a rimanere indifferenti davanti a quell’orrore?

Ecco, se per molti il confronto tra Shoah e Migranti morti in mare può sembrare azzardato, dall’altro ci sono similitudini e analogie che ci avvertono che stiamo rivivendo esattamente ciò che è successo nel secolo scorso.

La questione mi è rimbalzata in testa per un po’ di giorni, ed è tornata a galla quando ho visto un evento su Facebook organizzato da SOS Mediterranee per la presentazione del film “387- Scomparso nel Mediterraneo.”

Già intitolare il film con un numero, il 387, rimanda all’analogia dei numeri dati agli ebrei nei campi di concentramento: un annullamento di identità. Eppure, anche nella retorica dei mass media odierna, la questione dei numeri banalizza il fenomeno migratorio e le relative perdite.  

“Oltre 30000 morti nel Mediterraneo dal 2000 a oggi.”

Il singolo migrante, la singola vittima, viene annullata da un insieme di cifre. Dietro quei numeri e quelle morti c’erano persone, vite umane, che hanno rischiato consapevolmente la vita per raggiungere una prospettiva futura migliore. Vite umane che meritano una dignità, un nome.

Proprio da questo concetto parte il film 387 – scomparso nel Mediterraneo, prodotto da Madeleine Leroyer. Il film è stato proiettato in quattro cinema italiani e in Germania, Svizzera e Francia nella data simbolica del 3 ottobre: in questo giorno del 2013 un barcone stracolmo di persone si rovesciò a poco più di 500 metri dall’isola dei Conigli a Lampedusa. A perdere la vita furono 366 persone, nella stragrande maggioranza di nazionalità eritrea. Fu un avvenimento che scioccò profondamente l’opinione pubblica europea e che condusse alla creazione del progetto di soccorso “Mare Nostrum”, poi dismesso nel 2014. A Roma il film è stato proiettato l’11 ottobre, data “dimenticata” nella storia delle tragedie del Mediterraneo: un altro naufragio con 268 vittime, tra cui 60 bambini, avvenuto a poche miglia dalle coste italiane pochi giorni dopo le morti del 3 ottobre 2013.

Il documentario tratta del più grande naufragio – tra quelli dei quali si ha notizia – fino a ora registrato nel Mediterraneo, quello del 18 aprile 2015, nel quale hanno perso la vita più di mille persone al largo delle coste Libiche.

Per più di un anno il relitto del barcone è stato lasciato a circa 400 metri sul fondale del Mediterraneo, e fu recuperato il 30 giugno 2016, su decisione dell’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Nel relitto sono stati trovati circa 300 corpi, oltre alle 169 salme già recuperate in mare nel corso di quell’anno. I sopravvissuti sono stati solo 28.

Numeri e ancora numeri, ma non possiamo basarci su questo: il film lo dice dai primi minuti, bisogna dare dignità alle persone morte, poiché la civiltà di un popolo si dimostra da come tratta i defunti.
Per questo il fulcro del documentario è il riconoscimento e l’identificazione della salma 387, attraverso il coinvolgimento di medici legali, lavoratori umanitari, ricercatori, sopravvissuti, famiglie.

Quella che viene chiamata salma 387 è però un insieme di coperte e vestiti con resti umani attaccati – un metacarpo e qualche traccia di pelle. Cosa ci si può aspettare da un corpo lasciato per 14 mesi in mare?

L’indizio principale per il riconoscimento è un portafoglio nella tasca dei resti di una felpa. Nessun documento riconoscibile, solo tante foto e una lettera spezzata che dice “I love you, tornerò presto da te.”
Poche parole, sbiadite, che conducono al primo indizio: era un ragazzo giovane, massimo 25 anni.

Nessuna foto però riesce a portare i ricercatori all’identificazione. Nessuna famiglia che chiede il corpo. Il cadavere, o quel che ne resta, è destinato a essere sotterrato in una tomba in uno dei tanti cimiteri in Sicilia, magari sotto l’epigrafe di qualcun altro se c’è spazio, come si vede dal film. E i suoi effetti personali sono destinati a rimanere nel baule “Effetti Personali Mix” dell’Istituto di Medicina Legale di Milano, insieme a tanti altri portafogli, vestiti, guanti, di tutte quelle persone che hanno perso la vita e non sono mai state riconosciute.

Una scena agghiacciante, e anche in questo caso è spontanea l’analogia con i mucchi di scarpe e vestiti appartenenti agli ebrei nei campi di concentramento.

Dopo due anni dal naufragio, solo tre cadaveri sono statati identificati: 325 sono stati invece i crani rinvenuti non associati a corpi. Per questo Josè Pablo Baraybar, archeologo peruviano dell’ONU, parte per ricostruire legami apparentemente invisibili attraverso famiglie, sopravvissuti, persone che non sono riuscite a partire, nei paesi del Mali, Sudan, Senegal e Eritrea. Tutto ciò cercando di trovare una connessione, un piccolo indizio che possa dare identità a tutti quei brandelli di carne rimasti attaccati ai vestiti rinvenuti nel relitto naufragato.

Viene interrogato anche uno dei 28 sopravvissuti che dopo due anni dall’accaduto ha una famiglia, una casa, sorride. Poi però gli chiedono di ricostruire gli eventi del 18 aprile: “Mi si continuavano ad aggrappare le persone, dicendo aiutami, aiutami! – racconta con le lacrime agli occhi – Ma io non potevo fare niente, l’istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio, le ho scacciate via. Non chiedetemi di ricordare quei momenti, non voglio”.

Se i sopravvissuti non se la sentono di ricordare gli eventi accaduti durante la loro traversata del Mediterraneo, è invece fondamentale che vengano impressi nelle nostre memorie. Le persone continuano a morire, nell’ultimo anno sono state più di 650. Non possiamo rimanere indifferenti. Non possiamo criminalizzare le ONG. Ricordiamoci che si tratta di vite umane, non di numeri.

E ricordiamoci che, se fra 50 anni ci chiederanno “come è potuto accadere tutto questo?”, noi non potremo rispondere con “Non sapevamo cosa stesse succedendo”.