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Palestina, nel campo profughi di Dheisha c’è una stanza in affitto su Airbnb: a casa di Ahmad

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Palestina, Airbnb e una stanza in affitto. Ahmad vive a Dheisha, campo profughi palestinese nella Cisgiordania,  luogo dove hanno trovato rifugio 3000 persone fuggite dalle loro case in seguito al conflitto arabo-israeliano del 1948. Secondo l’organizzazione delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) vengono definiti “rifugiati palestinesi” coloro il cui normale luogo di residenza sia stata la Palestina, durante il periodo che va dal 1° giugno 1946 al 15 maggio 1948, e che abbiano perso le loro abitazioni e i mezzi di sostentamento in seguito al conflitto.

Ahmad vive a Dheisha. Un insieme di piccole vie che si intersecano, scritte sui muri, uno stradone lungo per raggiungerlo, che prosegue dritto fino a Betlemme. Il viso di Arafat, presidente dell’Autorità Palestinese fino alla sua morte, ti fissa dall’ingresso della città.

Ahmad ha 25 anni e una storia da raccontare. “Benvenuti da qualche parte che non è da nessuna parte” ci dice appena entriamo in casa sua. Ci accoglie sua sorella più piccola, facendoci prima di tutto togliere le scarpe. Ci fa entrare nel suo piccolo mondo, una stanza piena di tappetti arabi e foto attaccate alle pareti, parte di quella che negli anni è diventata una vera e propria casa e da qualche mese non più solo per lui e la sua famiglia – mamma papà e due sorelle – ma anche per chi viene da fuori. “Sì, anche per gli israeliani”, sottolinea lui. “Sperando che chiunque esca di qui non sia solo un ospite, ma anche un amico.” 

Ahmad ha messo in affitto una delle stanze di casa sua su Airbnb. È facile trovarla. Digitando sul motore di ricerca della piattaforma “Betlemme” si trova subito il suo profilo. È facile capire che non si tratta di una semplice stanza in affitto, ma di qualcosa di più. Ahmad non vede l’ora di sedersi con noi. Beviamo del thè e le sue parole scorrono veloci, con l’urgente necessità di essere raccontate. C’è anche suo padre sul divano insieme a noi, coperto da una giacca pesante. Ogni tanto fa dei cenni con la testa. 

“Ha avuto delle gravi conseguenze psicologiche a causa degli anni trascorsi in prigione” ci dice. “Ma finalmente siamo tutti di nuovo a casa”. Ci racconta degli anni universitari, della borsa di studio per la Russia e della laurea in Economia e amministrazione, la lontananza da casa e poi il suo ritorno. La sua voglia di creare un futuro possibile. Di costruire conoscenza. “Non lo faccio solo per me, lo faccio soprattutto per la mia famiglia, ecco, che non si può permettere un altro lavoro. Qui non si può lavorare. Questa è una prigione a cielo aperto. Non c’è libertà”, 

L’entusiasmo iniziale si trasforma in voglia di riscatto. “Così chi trascorre del tempo con noi può vedere come viviamo, che non siamo degli animali. Siamo umani”. La sua voglia di verità, di farla conoscere a chi sta intorno, traspare dalla sua voce. Continua raccontandoci lo scopo del progetto. “Voglio che anche gli stranieri possano conoscere questa realtà e non solo guardandola dai telegiornali, ma attraverso i loro occhi. E che possano farsi una loro idea. Che non sia filtrata da nessun mezzo di comunicazione”. 

Ahmad ci fa sentire parte della sua piccola comunità. Ci riconosciamo nell’alterità del cibo. Attraverso i piatti tipici cucinati da sua madre ci facciamo spazio nella cultura palestinese. “Vi accompagno io ad Hebron domani. Non vi preoccupate”. La sveglia suona presto. La colazione di fretta con il pane fresco che Ahmad è andato fuori a prendere e l’hummus. Attraversiamo in taxi quelle che sono le autostrade di proprietà di Israele. Vediamo con i nostri occhi i cartelli che ci dicono di fare attenzione ai territori palestinesi. 

Passiamo i check point e i soldati immobili per strada. Ad accoglierci è una città vuota, in seguito al “Deal of the Century” di Trump, il piano di pace per il Medio Oriente, e ad alcune manifestazioni successive. È una città divisa, così come studiamo nei libri di storia e come ci raccontano i telegiornali. È una città recintata, rinchiusa nel filo spinato. Ahmad non può camminare in tutti i luoghi della città, il suo documento di rifugiato palestinese non glielo permette. Il nostro passaporto italiano invece sì. Attraversiamo anche quelle zone che sono inaccessibili per i palestinesi. Ha cambiato faccia da quando abbiamo messo piede lì. 

“Vi porto in un posto speciale, che in pochi conoscono”. Saliamo quelle scale scivolose, è appena piovuto e il freddo e l’umidità si sono concentrati in quello spazio di mondo. L’aria è gelata arrivati lassù. Da una parte la zona araba. Dall’altra le colonie israeliane. “Hebron non dovrebbe essere così” ci sussurra Ahmad.

Ai grigi, a tutti i bianchi e i neri che non sappiamo ascoltare, alle sfumature di cui non ci accorgiamo.

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FONTI UTILI:

https://www.unrwa.org/where-we-work/west-bank/dheisheh-camp

https://www.bbtour4.com/