La censura del rumore: giornalismo, sicurezza digitale e privilegio

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Cosa significa essere un giornalista d’inchiesta in Italia oggi? Con l’aumento degli strumenti digitali per tenere in luoghi sicuri documenti e fonti, qual è il rischio di essere un professionista dell’informazione nel mondo occidentale? 

Torino, ottobre 2022: gli Slow News Days tornano in presenza dopo la pandemia. Tre giornate di incontri, eventi e contenuti multimediali sul giornalismo lento.

Andrea Coccia, giornalista di Slow News, ha tenuto il panel “Come si fa il giornalismo a fumetti”, seguito da “La membership e come farla”. Il giornalista Gabriele Cruciata si è occupato, invece, di “Ricerca avanzata e investigazione” e “La sicurezza digitale”. Ho contattato anche Barbara D’Amico, giornalista freelance, invece assente agli Slow News Days, che oggi si dedica a progetti di giornalismo digitale e ai modelli di business online. 

Abbiamo parlato con loro di giornalismo d’inchiesta, degli strumenti online alla portata di tutti e della sicurezza digitale per chi svolge questo mestiere. 

Nei panel avete parlato di privilegio nella dimensione della sicurezza digitale: pensate che esista un problema?

Gabriele: Parlando di sicurezza informatica penso di essere parte del problema, perché sono un maschio bianco eterosessuale e questo mi permette di attraversare il privilegio. Ci sono studi che lo dimostrano: per una donna è molto più difficile essere intervistata rispetto a un uomo, per la paura di non essere abbastanza esperta da farsi ascoltare proprio perché si vive in un contesto in cui una donna deve lavorare di più per ottenere gli stessi risultati di un uomo, per sentirsi “brava” e di conseguenza accettata.

Barbara: Non mi occupo nello specifico di cyber-sicurezza, ma è un aspetto di cui ogni giornalista deve tenere conto. La giornalista Carola Frediani ha scritto #Cybercrime – Attacchi globali, conseguenze locali. A livello giornalistico le redazioni – ma anche molte aziende – non si preoccupano di mettere in sicurezza la propria rete, i propri dati e le proprie documentazioni. E questa cosa è risultata ancora più evidente durante la pandemia. Cosa è successo in quel contesto globale? A un certo punto, di colpo e forzatamente, tutto il lavoro è stato remotizzato, tranne chiaramente che per le industrie pesanti, impossibilitate alla virtualizzazione delle loro produzioni. Ma c’è anche un esempio più tangibile se pensiamo alle nostre case: quante volte abbiamo pensato “Ma chi si sta fregando la mia rete?” mentre stavamo facendo una call? Ecco, in quel contesto tutto questo l’abbiamo sentito in modo più intenso non solo noi, ma anche tutta la dimensione internazionale durante incontri su Zoom aperti di circuiti particolarmente sensibili – riunioni di gabinetto e governative – e summit mondiali, in cui ogni tanto accedeva qualcuno di esterno. Non intendo dire che nessuno si ponesse il problema, ma che non si conoscessero a fondo i meccanismi di protezione nella cyber-security. Abbiamo lavorato tantissimo proprio su questo: la formazione. Studiare e poi semplificare il più possibile la possibilità di proteggersi, sono due aspetti chiave di questo processo.

Credi che esista un privilegio nel mondo del giornalismo, per cui a certe persone è concesso di utilizzare questi strumenti e ad altri no?

Gabriele: Sì, esiste un privilegio, ma il mio status di giornalista maschio e bianco in Occidente porta comunque con sé l’utilizzo di un’estrema cura e attenzione in quello che faccio, soprattutto nel lavoro investigativo che avviene durante le inchieste. E poi come giornalisti abbiamo una grandissima responsabilità. Un esempio: durante tutta la creazione del podcast Buco nero, con Arianna Poletti abbiamo lavorato sotto copertura, e ci vuole tantissima cura in questo tipo di giornalismo d’inchiesta. 

Barbara: Non parlerei di privilegio ma di accesso e in particolare di accesso alla formazione. Bisognerebbe parlare con molte persone per capire se esista un privilegio maschile oppure no, però se guardiamo ai dati sul gender-gap in Italia per quanto riguarda lo stipendio (vedi: Le donne guadagnano il 20% in meno rispetto agli uomini) è ovvio che le donne hanno uno svantaggio: si occupano anche di tutta una serie di lavori-extra che non sono riconosciuti. Poi è importante confrontarsi sull’accessibilità all’assistenza per le cure parentali: insieme alla variabile del gender-gap, queste due – prima ancora della sicurezza – costituiscono una priorità, perché rendono difficile raggiungere la serenità e tranquillità necessarie per poter dire “faccio questo mestiere, mi posso esporre e posso riportare le notizie in modo congruo”. Esiste sempre il rischio della lite temeraria: quando si parla di un argomento ritenuto scomodo si viene spesso minacciati di essere querelati. L’assistenza legale è garantita se si è iscritti ad associazioni sindacali per cui bisogna versare annualmente una quota, e anche in questo caso servono delle risorse. Queste questioni vengono ancora prima della cyber-sicurezza, quindi la mia sensazione è questa: bisogna prefiggersi delle priorità e prenderle in considerazione una a una. Poi, se si tratta di lavorare in sicurezza, ti posso dire che oggi in Italia il giornalismo non lavora in sicurezza. I freelance sono quelli più esposti al rischio. Pensiamo alla copertura di una manifestazione, di guerre e scenari al di fuori del contesto italiano: in che modo le redazioni garantiscono minime tutele? Se lavori da collaboratore dovresti poter avere lo stesso livello di sicurezza che ha il giornalista dipendente, ma si dà per scontato che tu – da freelance – possa proteggerti in autonomia. Parliamo di un rischio reale, soprattutto se si coprono temi sensibili.

Cosa è cambiato nel tempo?

Gabriele: Da quello che raccontano colleghi con più esperienza di me posso dire che oggi la situazione è migliorata. Poi esiste un modo vecchio di fare inchiesta che è diverso – in termini di sicurezza – rispetto al nuovo. La prima differenza non riguarda lo strumento – il digitale o l’analogico – ma il contesto storico: in Italia una volta il giornalista si ammazzava facilmente. Un esempio è l’assassinio di Mino Pecorelli avvenuto nel 1979 a Roma. Mentre Pecorelli è in macchina, viene affiancato dai sicari che gli sparano. Vivendo a Roma ti so dire esattamente dove è accaduto – tra via Plinio e via Orazio – e io quel posto lo vedo spesso. Non ho mai pensato di poter morire colpito da una pallottola, facendo il suo stesso lavoro. Da quel punto si vede il Colosseo: ieri come oggi è pieno di persone. 

Andrea: Vincenzo Sparagna – che nel 1980 era tra i fondatori della rivista Frigidarie – nel mensile di satira “Il nuovo male” racconta come negli anni ‘70 e ’80 si parlasse di censura del silenzio: se urlavi ti ascoltavano, se dicevi cose scomode ti ammazzavano. Potevi farti ascoltare solo grazie a te stesso. Oggi è il contrario: c’è la censura del rumore. Oggi viviamo in un mondo diverso: se ti ammazzo ti faccio un favore, perché fa notizia, invece se ti ignoro è diverso. Quindi se ti ammazzo qualcuno prenderà il tuo posto e se lo fa è perché quello che dici è importante: ha senso ascoltarti. C’è troppa gente che parla e per arrivare a farti ascoltare deve esserci qualcuno che porti l’attenzione su di te. Prendiamo il caso di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa con una bomba piazzata nella sua auto il 16 ottobre 2017. La sua inchiesta, ciò che vuole dirci, è arrivata e più forte di prima.

Gabriele: Il secondo aspetto di differenza rispetto al vecchio giornalismo è la collaborazione: oggi con internet è molto più semplice, non si lavora più da soli. Poi i giornalisti di oggi si sono inventati un’assicurazione sulla vita: se mi ammazzi c’è qualcuno che può accedere al mio archivio digitale e che farà uscire comunque l’inchiesta.  

Andrea: In passato, una volta fatta scomparire la tua valigetta di giornalista con tutti i documenti sull’inchiesta, questa saltava.

Barbara: su Breaking Italy nella live con Luca Sofri, direttore del giornale online “Il Post”, a un certo punto Alessandro Masala gli pone questa domanda: «Secondo te internet ha migliorato o peggiorato le cose?». Sofri ha risposto: «L’ha migliorata per quelli che hanno gli strumenti, invece per quelli che non hanno gli strumenti l’ha peggiorata». E io sono relativamente d’accordo. A questo proposito, posso dire che le cose sono migliorate molto: possiamo parlare in tempo reale con persone che sono lontanissime, giornalisticamente possiamo verificare in tempo reale – con appositi strumenti e attenzione – cose che accadono dall’altra parte del mondo. Se si utilizzano le competenze, le conoscenze e le capacità di riflessione adeguate, internet migliora il modo di fare giornalismo, ma tutto deve essere sottoposto a verifiche, con l’utilizzo di più fonti.