Change The Future @ Slow News: incontro tra le due redazioni

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In una riunione di redazione in diretta, il direttore di Slow News Alberto Puliafito e le redattrici e i redattori di Change The Future si sono incontrati per parlare del futuro del giornalismo, dell’ecologia dell’informazione, dello slow journalism, dell’Agenda 2030 e di molte altre storie.

Di seguito il racconto corale di Ken Anzai, Federico Brignacca, Irene Burlando, Ygnazia Cigna, Vera Lazzaro, Federica Mangano, redattori di Change The Future.

Le redazioni Change The Future e Slow News si sono incontrate il 10 novembre in una diretta Facebook per parlare del futuro del giornalismo, dell’ecologia dell’informazione e dell’Agenda 2030.  Entrambe le realtà fanno informazione secondo il modello dello slow journalism: narrazioni accurate, verificate e di valore.

L’obiettivo delle due realtà non è proporre contenuti in modo ininterrotto, ma raccontare storie scelte secondo criteri e valori specifici e che non abbiano una data di scadenza. Lo slow journalism di Change The Future e Slow News è un giornalismo verificato, perché dietro ogni pezzo c’è un’attenta ricerca ed elaborazione delle fonti, e verificabile, perché vengono rese disponibili al lettore e qualora si verificassero errori vengono corretti segnalando la correzione all’utente.

Esistono tante forme di giornalismo e il nostro è quello che non vuole cavalcare l’opinione pubblica rincorrendo in modo estenuante la notizia: è il giornalismo di chi si muove con sguardo oculato e attento per avere completezza di visione e saper cogliere ciò che sta in ombra. Ed è qui che Slow News e Change The Future intervengono facendo luce, dove possibile.

Business model

La domanda che ci si pone di fronte a una redazione diversa da quelle tradizionali come Slow News è sul supporto economico di una realtà simile. La risposta è presto detta: il supporto arriva in forma di abbonamento da parte dei lettori, ma con un contributo a proprio piacimento. Non è però questa l’unica fonte di sostentamento: infatti, la partecipazione a bandi o la vendita dei corsi sono aspetti importanti che esulano dal ruolo di giornalista ma al tempo stesso perseguono la strada dello slow journalism. 

Community e rapporto con i lettori

Change The Future è comunità. Siamo una rete di legami e di connessioni tra coloro che attraversano questo luogo virtuale. Ed è la comunità stessa, spesso dimenticata a livello giornalistico, che diventa fondamentale anche all’interno della realtà di Slow News. Sono le persone di cui la redazione si prende cura, lettrici e lettori, che hanno deciso di sottoscrivere la membership: una delle parti fondamentali di Slow News. Oltre a essere semplici lettori, spesso intervengono nel flusso di lavoro attraverso mail di proposta e suggerimento, ma “a volte siamo noi stessi a inviare le mail per raccontare un po’ il backstage del lavoro che stiamo compiendo” dice Alberto Puliafito, direttore di Slow News. Non appoggiandosi sulle pubblicità come fonte di guadagno, le mail che i lettori scrivono sono un metro di valutazione per i lavori pubblicati. Diventano in alcuni casi anche “consulettrici” e “consulettori”, possedendo delle competenze specifiche in una determinata area, accompagnando la redazione su quei temi dove non si sente esperta. “Non siamo narratori onniscienti, non siamo dappertutto” così spiega Alberto, citando il giornalista Mario Tedeschini Lalli.

“Vogliamo crescere e costruire un posto dove stare insieme alla gente che ci vuole bene, ovvero alle nostre lettrici e ai nostri lettori, che da soli rendono il nostro lavoro sostenibile” recita il sesto punto del manifesto di Slow News. E sono proprio quelle lettrici e quei lettori la comunità con cui si stabilisce un rapporto. La comunità che non si crea, ma si aggrega intorno a quello che come redazione Slow News propone. Ci sono già. I contenuti, il tono di voce e la modalità comunicativa diventano poi un catalizzatore. Ci si incontra intorno a un contenuto specifico, ci si ritrova per un determinato tipo di giornalismo, con lezioni ed eventi come quello del 10 novembre. Ci si prende cura e si conversa con i propri lettori e le proprie lettrici, raccontando il mondo in maniera radicalmente diversa.

Manifesto e trasparenza

Ma come si crea, concretamente, una comunità? Come si stabilisce un legame reale?

Uno dei punti di forza di Slow News è il loro manifesto, o “dichiarazione d’intenti”. È un testo che delinea e chiarisce in maniera precisa ed essenziale quelli che sono i punti chiave della scelta editoriale della redazione, e così regola il rapporto tra chi scrive e chi invece legge. Regole – “plasmabili”, che possono sempre evolversi, come giustamente Alberto tiene a sottolineare – che servono da elementi fondanti sui quali poi costruire il resto.

Sulla stessa linea, che è la linea della trasparenza, la redazione di Slow News costruisce anche altri contenuti “trasparenti”: su come difendere la privacy, su che cosa intende Slow News per giornalismo al servizio della comunità, su come ottengono i finanziamenti che permettono loro di sostenersi, su come si lavora dopo aver commesso un errore. “Il manifesto” spiega Alberto “vuol dire anche interfacciarsi con le persone dicendo: guardate, noi per prima cosa ci spogliamo di questo cappello del narratore onnisciente. Che è un cappello che troppo spesso il giornalismo mainstream si è messo in testa”.

La scelta di totale trasparenza porta inevitabilmente con sé un concetto, che come chiarisce Alberto “spesso viene considerato brutto, ma non è una parola di cui ha senso vergognarsi”: il marketing. Perché Slow News è anche un brand, come lo è di fatto ogni testata giornalistica. È quindi fondamentale che chi decide di collaborare, e così di far parte della community, sia consapevole di quali sono le fondamenta essenziali del progetto. “Abbiamo un manifesto in cui diciamo chiaramente chi siamo, se non ti piace chi siamo… Beh, pazienza! Va bene, non ci piacciamo, forse non ci possiamo piacere, ma noi del giornalismo abbiamo questa idea qua. Forse può sembrare un po’ radicale, ma non sarebbe onesto scendere a compromessi. Ecco a cosa serve un manifesto”.

Piano editoriale

Il piano editoriale è un oggetto molto fluido che non bisogna confondere con il semplice piano delle uscite, esso infatti è molto di più. Noi come redazione di Change the Future trattiamo principalmente di diritti umani e Agenda 2030 e da qui vorremmo sviluppare un nostro piano editoriale. Nel confronto con Alberto Puliafito è risultato che quello che bisogna inserire in un piano editoriale è un qualcosa che parla di attualità anche se non strettamente legato a questo. Più è possibile far durare il contenuto nel tempo più il piano delle uscite è semplice da progettare. L’Agenda 2030, per come è impostata, “rappresenta già un piano editoriale” con i suoi 17 Goals. Il consiglio che viene da Alberto è “continuare a fare ciò che state facendo”, studiare il mondo che ci circonda e interessarci a questo. Gli Obiettivi dell’Agenda 2030 sono una buona roadmap per parlare di tanti argomenti che spesso non si considerano attuali. 

Flash news e pornografia dell’informazione

“A chi giova pubblicare una notizia? Alla mia fonte? Al modello di business del mio giornale perché porta click? Al politico di turno? Oppure alle cittadine e ai cittadini, che devono essere più consapevoli?”.

Uno degli argomenti che abbiamo trattato durante l’incontro con Slow News è stato proprio questo. “Se è l’11 settembre 2001, e ti trovi a Manhattan, hai necessità di sapere cosa sta succedendo in quel momento alle Torri Gemelle”, è il ragionamento da seguire, “ma se ti trovi dall’altro lato dell’oceano, non è un bisogno reale sapere nell’immediato cos’è successo. Raramente il commento scritto a caldo è una cosa che riscriveresti una settimana, o anche solo due giorni, dopo”. L’istantismo, la diffusione di flash news, non è necessariamente “cosa buona e giusta” come invece potrebbe sembrare: come può l’informazione live, pura, nuda, perciò non influenzata da bias di sorta, essere negativa? “Quando crolla il Ponte Morandi, tutto l’ecosistema informativo sa che è crollato e io faccio fatica a ricordarmi dove l’ho letto. Forse me lo ha scritto qualcuno su WhatsApp. Cosa mi ricordo molto bene del crollo del Ponte, oltre all’evento in sé? Il bellissimo approfondimento uscito, esattamente un mese dopo, sul New York Times. A quello preferisco dare valore. Quante volte i reporter esplicano fatti, quante invece entrano nel ciclo di polemica, smentita, reazione, con ben poco di fattuale?”.

Nel 2015 quattro persone vengono decapitate, in Egitto, dall’ISIS. I video vengono pubblicati online e trasmessi, pur censurati, sulla maggior parte dei telegiornali. “Questo,” non è solo Puliafito a dirlo, “è fare il gioco dei terroristi”.

Nel 2017 le ramblas di Barcellona si fanno rosso sangue. Le “Insta-stories” si riempiono di video di grida e persone sanguinanti.

Nel 2020 il metodo più veloce per sapere dell’attentato di Vienna è andare su Instagram, cercare la geolocalizzazione, cliccare sulle storie. Immediatamente, video parzialmente censurati di ferite da arma da fuoco.

Sempre quest’anno la morte di un paziente in un pre-triage italiano viene pubblicata online. Il viso è censurato, la dignità umana comunque lesa.

Portiamo questi esempi per porre una domanda: questa tendenza a trasmettere immagini per quello che sembra essere mero gusto dell’orrido, quanto rovina il giornalismo, non solo a livello italiano?

La risposta è: “Di tratta di pornografia dell’informazione”, ma Alberto approfondisce. Sorge una domanda spontanea: a chi giova quello che pubblico?

Se prendo un discorso di Trump e lo ripropongo in diretta, amplificando l’effetto ma senza sottoporre le fonti a un controllo, a chi giova? New York Times e CNN, coprendo mediaticamente le recenti elezioni, hanno titolato i loro pezzi “Trump mente”, “Senza alcuna prova Trump dice che…” e così tutelano il lettore.

Se io, “grande giornale italiano”, replico, in diretta streaming, la manifestazione dei no-mask a Roma, amplificando la voce di un gruppo di persone con idee dannose, sconnesse, rischiando di affermare indirettamente la loro veridicità, sto facendo davvero il bene della comunità, o sto cercando un click?

Non possiamo dare uguale esposizione a chi porta fatti e chi porta opinioni. Forse, finché continueremo a comportarci così, a preferire il click al controllo, il giornalismo italiano non potrà dirsi guarito dalla brutta malattia che è l’interesse personale di chi divulga.