La Superlega sveglia la coscienza (di classe)

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L’annuncio della creazione della cosiddetta “Superlega” – sul cui futuro stanno già scorrendo i titoli di coda – ha animato il dibattito pubblico degli ultimi giorni, prendendosi non solo la scena prettamente sportiva, e creando una situazione che difficilmente si risolverà senza strascichi. A tal proposito l’intenzione di questo articolo non è quello di analizzare o spiegare come e perché si sia arrivati a questa spaccatura tra le squadre europee che rappresentano per tifoseria (e quindi valore) il top del calcio mondiale, e la UEFA che è il loro organo di governo.

La cosa che più colpisce chi è abituato alla polarizzazione netta delle opinioni sulle tematiche che ogni giorno saltano fuori a monopolizzare il dibattito pubblico di cui sopra, è proprio la sensazione generale che questa volta siano più o meno tutti d’accordo, anche i tifosi delle stesse squadre partecipanti: “Questa Superlega non s’ha da fare”.

La condanna della logica egoista che sta portando le proprietà societarie delle 12 squadre fondatrici del torneo è praticamente unanime, nel nome dei valori fondanti del calcio come sport popolare e del principio meritocratico su cui dovrebbe basarsi una competizione sportiva. Ad essere criticato maggiormente è infatti il criterio della partecipazione, che da quanto prospettato finora garantirebbe almeno 15/20 delle squadre per ragioni di storia e blasone. In poche parole chi investe capitale in queste squadre vuole eliminare il rischio di non qualificarsi alla Champions League, la competizione europea che porta maggior introiti, creandone una in cui si è ammessi per diritto e dai guadagni assicurati.

Una delle motivazioni con cui Florentino Perez, Presidente del Real Madrid oltre che della nascente Superlega, ha giustificato questa presa di posizione alla TV spagnola è stata:

“Questo è l’unico modo per salvare tutti: club grandi, medi e piccoli. I club importanti devono dare una soluzione alla brutta situazione che sta vivendo il calcio europeo. Il modo per rendere il calcio redditizio è creare partite più attraenti. Siamo giunti alla conclusione che facendo la Super Lega al posto della Champions League potevamo mitigare il mancato guadagno. Abbiamo fatto questo per salvare il calcio, la situazione è drammatica. Il calcio deve evolversi, deve adattarsi ai tempi in cui viviamo. Il pubblico sta diminuendo e i diritti televisivi altrettanto. E la pandemia ha accelerato il processo perché siamo tutti sull’orlo della rovina.”

Il principio per cui salvando la situazione economica dei grandi club grazie alla neonata competizione, dovrebbe quasi automaticamente salvare l’implosione del sistema calcistico europeo e non solo, ricorda molto banalmente la teoria del trickle down. Ovvero l’assunto liberista secondo il quale se sta meglio chi è più ricco allora anche tutta la società starà meglio. Ciò in politica economica si traduce con il taglio delle imposte sui più ricchi, in modo tale da ridurre la pressione fiscale e aumentare la liquidità a loro disposizione, che a sua volta dovrebbe essere investita per favorire la crescita da cui deriverebbe la redistribuzione ai più poveri anche attraverso la creazione di occupazione.

Dato per assunto che le applicazioni del trickle down non hanno dato gli esiti prefissati se non una maggiore espansione delle disuguaglianze economiche, non avrebbe tutti i torti dunque chi vede nella Superlega la vera fine del calcio, e la sua fase ultima nel perseguire le logiche di mercato. In questo senso fa una certa impressione chi si schiera su questa posizione proprio per i propositi élitistici della competizione, ma allo stesso tempo appoggia programmi economici come la flat-tax.

Ritornando dunque alla cara opinione pubblica e il netto giudizio compatto e negativo che ha dato alla Superlega sarebbe quantomeno auspicabile vedere reazioni del genere ogni qual volta non si garantiscano pari opportunità per tutti. Obiettare che uno sport non possa essere paragonato alla vita reale può essere plausibile, certo è che il calcio si è dimostrato sempre più spesso come specchio della società, grazie alla sua vocazione e diffusione mondiale.