Il protagonismo giovanile negli eventi sul clima: incontro con Jacopo Bencini

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di Asya Turchi e Matteo Scannavini

Saranno le ultime generazioni a pagare gli effetti più gravi del cambiamento climatico, eppure la loro voce non viene ascoltata dalle istituzioni. Ma è veramente così? Gli spazi di partecipazione giovanile nei processi decisionali delle politiche climatiche stanno davvero migliorando o si tratta solo di youth-washing? 

Su questa e altre tematiche ambientali il Movimento Giovani per Save the Children si è confrontato il 13 aprile con Jacopo Bencini, policy advisor dell’Italian Climate Network, una onlus impegnata nella lotta ai cambiamenti climatici attraverso azioni di divulgazione e sensibilizzazione. Hanno condotto l’incontro, svolto online, le redattrici di Change the Future Simona Vassallo e Victoria Pace.

Il dialogo giovani-istituzioni: un cortocircuito presunto?

Come Change, avvertiamo dei limiti nella mobilitazione giovanile. In particolare, notiamo un cortocircuito tra le istituzioni, gli enti di “mezzo” (università, enti di ricerca, enti locali e regionali) e i giovani.

Ce lo ha dimostrato anche la PRE-COP 26 di Milano, dove abbiamo avuto la possibilità di vedere sia il dentro istituzionale, con i delegati dei vari paesi, sia il fuori, con le proteste talvolta sconfinate in scontri con la polizia e arresti. Cosa pensi a riguardo?

Quello tra politica, istituzioni e giovani attivisti è un cortocircuito presunto, perché non ci sono risposte binarie. Se guardiamo agli ultimi anni, avere associazioni giovanili che riescono a osservare processi e sedersi ad alcuni tavoli, esprimendo una propria opinione, è un passo in avanti molto importante rispetto a non molto tempo fa.

Il processo della Youth4Climate di Milano che ha preceduto la PRE-COP è stato altamente inclusivo: tutti i governi che hanno sottoscritto la convenzione sul clima di Rio del 1992, anche quelli con meno risorse economiche, hanno accettato di avere due delegati giovanili. Può sembrare che alcuni di questi giovani selezionati potessero non essere gli stessi a protestare per strada, ma è stato un primo esperimento che considero positivo.

Oggi notiamo il cortocircuito istituzionale perché c’è più voglia di partecipare rispetto a quella che viene “concessa”, ma in Europa siamo in una situazione molto fortunata. Io vedo il cortocircuito nel modo in cui i giovani riescono a partecipare attivamente alla vita politica e fare parte di quei tavoli senza necessariamente essere invitati: un conto è essere invitati a prendere un gettone, un altro è far partecipare in maniera strutturata.

Se siamo arrivati a questo punto è grazie ai giovani stessi: io credo che ci siano delle leve che spingono la politica ad accorgersi dei problemi, e la pressione dei cittadini è una di queste.

Se non ci fosse stata Greta Thunberg non avremmo avuto la metà di quello che è successo a COP26; senza Fridays For Future e altri movimenti non saremmo dove siamo ora.

Avendo seguito la Youth4Climate e la PRE-COP dall’interno, la nostra impressione è stata che le considerazioni dei ragazzi, per quanto ascoltate, siano poi state messe da parte. Non è così?

Fino alle ultime tre ore del negoziato della COP26 c’era una riga del testo finale di Glasgow che prendeva in considerazione il manifesto di Youth4Climate e della Conference of Youth. Il problema è che è stata rimossa all’ultimo: capi di stato e negoziatori sono arrivati in aula con un testo più leggero in cui mancava proprio quella parte, che metteva in difficoltà molti Paesi, ad esempio con la richiesta di uscire dalle fonti fossili entro il 2030.

Facciamo però un passo indietro: 196 delegazioni del mondo hanno discusso quel manifesto dei giovani, compreso il phase out delle fonti fossili in meno di 10 anni. Non è finito nel testo finale? Vero, ma senza quel lavoro e quelle idee non ne avrebbero nemmeno parlato e la COP26 sarebbe finita tre ore prima. Senza Y4C due capi di governo come Draghi e Johnson avrebbero mai dedicato un’ora a confrontarsi coi giovani su quei temi? Probabilmente no, non è banale.

C’è una grande distanza tra ciò che chiedono le piazze e ciò che si discute nei negoziati internazionali. La spaccatura tra le decisioni di governanti e l’opinione pubblica giovanile esiste e ci vorranno diversi anni per cambiare le cose, ma non dobbiamo dare per scontato gli strumenti di partecipazione creati nell’ultimo anno. 

Come continuare su questa strada, affinché questi strumenti vengano utilizzati? Quali sono i prossimi passi?

Lo strumento più accessibile dal basso è quello della COY, che abbiamo anche in Italia. Si tratta di una conferenza di giovani sul clima, che produce un documento che viene mandato alla COY mondiale. Tutti gli input delle COY locali vengono sintetizzati in una posizione politica globale dei giovani in vista della COP. Tuttavia, in questo processo sono assenti molti Paesi che hanno minori possibilità economiche.

Poi c’è il processo di Youth4Climate, più esclusivo perché prevede solo due giovani per Paese selezionati da un board. Dopo la prima edizione a Milano, l’Italia sta lavorando per renderlo un’iniziativa stabile: il nome provvisorio è Youth4Climate Forever e dovrebbe diventare un appuntamento annuale prima di ogni COP. A Glasgow il ministro della Transizione Ecologica Cingolani si è inoltre impegnato per far sì che la Y4C diventi un progetto multilaterale gestito dalle Nazioni Unite, non più solo promosso dall’Italia.

Guardando ai prossimi anni, le COP27 e COP28 si terranno in Egitto e negli Emirati Arabi. Nel caso di COP27, a Sharm el-Sheikh sarà attrezzato un centro congressi all’interno di uno spazio turistico, quindi non ci sarà un’opinione pubblica da mobilitare o una città da far uscire di casa. L’attivismo dovrà utilizzare delle strade diverse, probabilmente lavorando più dall’Italia. Non sarà semplice e probabilmente dovremo aspettare la COP29 per rivedere le  piazze piene.

Una governance globale per un problema globale

Le cose vanno piano, ma vanno. Se sono troppo lente, non si rischia di sfociare in un clima di arrendevolezza? 

Quando si guarda al problema del clima e si leggono i report scientifici è facile rattristarsi. Le COP sono un processo lento, però se c’è la volontà politica, che nasce dalla pressione che i popoli fanno sui propri governi, piccoli passi in avanti si fanno. È importante evitare la narrazione tossica binaria secondo cui la COP sia stata solo un successo o un fallimento. A Glasgow, avere migliaia di giovani che gridavano al fallimento ha spinto i decisori a fare di più, ma in realtà dei risultati importanti erano già stati raggiunti. Mentre fuori si urlava che la COP era fallita, dentro vedevo i negoziatori sul tema della trasparenza che si abbracciavano e si facevano selfie perché erano riusciti dopo 15 anni ad approvare delle regole comuni su come lavorare.

Il cambiamento climatico è il più grande problema collettivo che abbiamo, quindi va risolto necessariamente insieme. L’unico foro che abbiamo dove ci sono tutti è quello delle Nazioni Unite: può essere lento, frustrante, deve mettere d’accordo 196 posizioni diverse, ognuna delle quali se ne porta dietro milioni, ma è l’unico modo per parlarne insieme. 

Ci sono alternative in cui singoli paesi portano avanti politiche più ambiziose dell’ONU. Ad esempio, a COP26 UE e gli Stati Uniti hanno lanciato senza preavviso un’iniziativa per ridurre le emissioni di metano. Anche se non fa parte del negoziato globale, spinge avanti l’ambizione dell’intero processo. L’importante però è non escludere nessuno dal ragionamento. 

Approfondiamo quest’ultimo punto. Come coinvolgere anche quei Paesi che partecipano meno agli accordi, anche se spesso inquinano di più? 

Partendo dall’attualità, non si possono escludere dalla vicenda del clima la Russia o il Brasile perché politicamente distanti. Non possiamo permetterci il free riding, che in economia indica la situazione in cui un attore fa quello che vuole mentre gli altri si danno delle regole. Occorre andare verso una governance globale.

Ci sono Paesi come l’Arabia Saudita, l’Algeria e l’Egitto, con cui stiamo stringendo accordi in questi giorni, che dimostrano minor ambizione e rallentano il processo. Chi basa la propria economia sulla vendita di sostanze clima-alteranti non ha ovviamente nessun tipo di interesse nazionale a partecipare. Ed è qui che entra in gioco il processo collettivo: chi subisce perdite economiche dalla transizione ecologica deve essere aiutato con altri tipi di investimenti per sopperire alla disoccupazione dovuta all’abbandono degli idrocarburi.

Se il problema è globale, la soluzione deve essere collettiva. Richiedere la solidarietà tra gli attori è la parte più difficile: non c’è un accordo su cosa significhi il termine riparazioni rispetto agli eventi più estremi che colpiscono i paesi fragili. È scontato che le emissioni degli ultimi 100 anni siano soprattutto colpa di europei e statunitensi, ma le conseguenze peggiori sono altrove: se gli effetti del cambiamento climatico devastano la costa kenyota, fanno crollare le fondamenta di Jakarta o sprofondare Kiribati, è colpa del nostro sistema. La responsabilità è internazionale, quindi a un certo punto dovremo spendere anche per compensare le loro perdite.

Sensibilizzare e informarsi sulle tematiche ambientali

Tornando al discorso della perdita di interesse nei confronti della causa ambientale, parliamo del ruolo dei media: come sensibilizzare e mantenere alta l’attenzione?

Un mondo in cui tutti hanno l’opportunità di vedere con i propri occhi gli effetti negativi del cambiamento climatico sarebbe bellissimo dato che, inevitabilmente, in Italia e Europa ce ne accorgiamo molto poco – anche se ce ne accorgeremo nei prossimi anni, ad esempio con alluvioni e bombe d’acqua.

Quello che ha funzionato con me è aver potuto vedere, negli anni, dove gli effetti estremi colpiscono e come colpiscono. Mi rendo conto che è un punto di vista privilegiato, ma proviamo a portare un po’ di sguardi stranieri e a creare un’empatia in quello che raccontiamo, anche per far capire come altre persone nel mondo vivono queste situazioni.
So che è difficile, ma dobbiamo ampliare lo sguardo, non chiuderci a chiocciola su quello che accade in Italia e nel nostro vicinato.

Hai parlato di alluvioni e bombe d’acqua, parole molto utilizzate dai media più classici per raccontare i disastri che ultimamente stanno arrivando anche qui in Italia. Secondo te c’è una reticenza dei media italiani nel voler ancora fingere che vada tutto bene o c’è qualcos’altro? 

Potrebbero esserci degli interessi da parte di alcuni editori rispetto al problema, perché in quel caso subentrerebbero dinamiche industriali, ad esempio di proprietà dei mezzi di comunicazione. 

Tuttavia, io credo che il vero problema sia l’assenza di una cultura della comunicazione di questi temi, un’esperienza pregressa nelle persone che raccontano i fenomeni ambientali. Non dobbiamo dare per scontato che tutti i giornalisti che si occupano di settori vicini a quello del clima o dell’ambiente siano ben informati a proposito.

Come Italian Climate Network collaboriamo con varie realtà per organizzare dei seminari di formazione dei giornalisti: prima di COP26 non erano molto frequentati ma dopo la COP26, forse per il fatto che l’Italia organizzava la conferenza, c’è stata stata una grande partecipazione e attenzione mediatica.

Abbiamo fatto tanti incontri, notando una diffusa fame di conoscenza tra i giornalisti. Al momento ne formiamo circa 30 all’anno, è un processo che si costruisce lentamente.

Consideriamo ora il punto di vista di chi è fruitore dell’informazione: cosa consigli ai giovani che vogliono informarsi e capire meglio come impegnarsi su questi temi?

Ci sono tanti canali. Noi come Italian Climate Network seguiamo principalmente la parte dei negoziati sul clima, perciò la nostra comunicazione sui social e sul nostro sito è legata al monitoraggio dei negoziati internazionali (ma ci occupiamo anche di tantissime attività nelle scuole e università). 

Ci sono poi altri canali come Fridays For Future e altre organizzazioni italiane; si attiva inoltre durante le COP sul clima un gruppo di ragazzi, “Destinazione COP”, che fa reportage puntuali e freschi. 

Il quotidiano “Domani” è uno dei quotidiani italiani che lavora di più e meglio, attraverso buoni giornalisti, sul tema. Tra le fonti in inglese, invece, oltre ai report IPCC, The Guardian segue più di ogni altro queste vicende. 

Come difendersi e difendere gli altri da fake news legate al tema ambiente e dal greenwashing? 

Non è immaginabile che chiunque di noi legga i report della IPCC, ma di solito affidarsi ad associazioni e realtà che seguono da vicino questi temi nell’attivismo può aiutare a fare un po’ di debunking e a capire cosa sia più o meno vero. Certo è che bisogna aver sviluppato un po’ di coscienza sul tema per riconoscere il greenwashing. 

Arrivare a riconoscere la presenza di greenwashing credo che sia un segnale positivo: se realtà come Plenitude arrivano ad esistere significa che c’è una tale pressione pubblica su quegli attori che sono obbligati a venirci incontro su questo tema. Il punto è saper riconoscere dove sta la verità e dove sta il greenwashing, e si può fare seguendo fonti autorevoli.