I media e il cambiamento climatico: una comunicazione responsabile, un uso consapevole

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C’è poco al mondo che non sia stato inglobato nella sfera mediatica, e il cambiamento climatico non fa eccezione. È per questo motivo che il National Geographic Fest 2021, tenutosi a Milano dal 6 al 12 novembre, ha organizzato diversi eventi dedicati al ruolo che i media e i big data rivestono all’interno della comunicazione sul cambiamento climatico.

Il titolo del primo di questi incontri è “Il medium è il messaggio: i media e i cambiamenti climatici”, che riprende la nota frase “il medium è il messaggio” di Marshall McLuhan, sociologo canadese che dedicò il suo tempo allo studio dei mezzi di comunicazione e degli effetti che essi hanno sulla società.
La frase riassume una delle teorie più celebri dello studioso: l’idea è che il mezzo di comunicazione sia ancora più importante della comunicazione stessa. Secondo McLuhan, infatti, il canale comunicativo non si limita a fare da cornice, ma si imprime sulla comunicazione, costringendola ad adattarsi alla struttura che il mezzo stesso le impone, modificando così il contenuto.

Il medium non si limita però solamente a plasmare il contenuto, ma compie un passo successivo, andando a ridefinire anche la cultura presente in quel momento storico. Così abbiamo per esempio l’era visiva, coincidente con l’invenzione della stampa di Gutenberg, dove le persone hanno fatto maggiore affidamento al proprio senso visivo, o l’era del villaggio globale, coincidente invece con l’interconnessione e dunque l’avvicinamento a livello globale delle persone, avvenuta grazie all’invenzione della tecnologia satellitare.

Dobbiamo quindi capire che per ogni mezzo di comunicazione esiste un proprio modo di farne esperienza, ma non solo: la teoria di McLuhan implica anche che per ogni mezzo esista una narrazione diversa della stessa tematica e un’altrettanta diversificata acquisizione di sapere da parte di chi i media li consuma.
Bisogna sottolineare ovviamente che quando si parla del pubblico dei mezzi di comunicazione, non si sta parlando di un insieme di individui incoscienti e facilmente manipolabili. Non capiranno, a seconda del mezzo postogli davanti, A invece che B, o viceversa. Le persone sono molto più coscienti del loro utilizzo dei media di quanto non si creda, la questione, infatti, non è così semplice. La lezione da trarre da McLuhan però, lo è: qualunque messaggio si voglia trasmettere, bisogna tenere conto del mezzo e del linguaggio usato.
È qui che entra a far parte della discussione il cambiamento climatico.

Come raccontare il cambiamento climatico

“Con la Conferenza di Rio del 1992 e l’inizio dei summit sul clima, si prese coscienza del bisogno di un dibattito pubblico sul ‘climate change’, ma in parallelo iniziò anche una polarizzazione di una parte del discorso che portò all’uso di toni dannosi” ha sottolineato Sarah Varetto, giornalista, Executive Vice President Communication, Inclusion and Bigger Picture di Sky Italia e ospite all’evento del festival. “Nel momento in cui si erano esacerbati in modo eccessivo i toni, il tema diventava di fazione,” ha proseguito, riferendosi a quanto, negli ultimi anni, il cambiamento climatico sia diventato sempre più una discussione di natura politica. Quando un problema riguarda tutti, a prescindere dall’orientamento politico, questo dovrebbe essere trattato da tutti con la stessa urgenza e con gli stessi obiettivi.
Varetto si è opposta ai toni allarmistici spesso adottati dai mezzi di comunicazione. Ha criticato la rappresentazione del problema come essere ‘sull’orlo del baratro’, perché controproducente rispetto al bisogno di mobilitare le persone. “Quando un problema viene presentato come inevitabile, diventa ansiogeno e quando diventa ansiogeno le persone iniziano ad ignorarlo”.

Sul dibattito che si è creato intorno al cambiamento climatico è intervenuto anche Edoardo Buffoni, conduttore del programma TG Zero di Radio Capital e secondo ospite dell’evento. “Quanto può influire la doppia voce quando si sa che il 99% degli scienziati crede che il cambiamento climatico è creato dall’uomo?” riflette, parlando dell’importanza data a quelli che sono i negazionisti del cambiamento climatico. Questi spesso risultano di numero maggiore rispetto alla realtà, per colpa della frequente attenzione data loro dai media. Secondo Buffoni è fondamentale che esista un filtro applicato alla comunicazione sul cambiamento climatico, formato dalla comunità scientifica. Questo però in determinati contesti può essere di difficile realizzazione, come ad esempio nei talkshow televisivi dove “si sa che il dibattito che fa lite fa ‘views’”.
Oltre alla logica del profitto che vince sul bisogno di fare informazione, il conduttore identifica come punto debole la sfiducia verso la scienza e le istituzioni, sempre più diffusa, che è diventata terreno fertile per la divulgazione di fake news.

Secondo entrambi gli invitati, Varetto e Buffoni, però, la questione non è così buia come sembra. “Si sta assistendo a una rivisitazione dei toni da parte dei maggiori mezzi di comunicazione” spiega Varetto, “consapevoli del pubblico al quale si rivolgono e al ruolo di strumenti di responsabilizzazione”. Un elemento importante del ruolo dei mezzi di comunicazione deve essere infatti quello di essere loro stessi uno strumento di pressione sulle istituzioni e la politica e di spingere il singolo cittadino a mobilitarsi, dandogli gli strumenti in mano per compiere scelte di consumo consapevoli e sostenibili. “Bisogna tenere presente che il pubblico è più maturo di quanto non si creda”, ribadisce sempre Varetto, ricordando che spetta anche alle aziende un ruolo nel contrasto al cambiamento climatico, riducendo ad esempio le proprie emissioni e muovendosi verso una “finanza green”. Sky, ad esempio, si è fissata l’obiettivo di raggiungere zero emissioni nette entro il 2030.

I dati come strumento di studio e intervento diretto

I media, oltre che fungere come mezzo di comunicazione, anche di natura bidirezionale, basti pensare al ruolo dei social media, sono luoghi di produzione di dati. Ogni immagine, numero, parola e testo contengono dati. Qualunque azione si compia lascia una traccia nel sistema. Questo insieme di informazioni può essere analizzato e trasformato in set di dati utili non solo all’ottimizzazione, ad esempio, di un motore di ricerca, ma anche per tenere traccia dell’avanzamento del cambiamento climatico, o della salute di uno sciame d’api. A questo tema il festival ha dedicato l’incontro “L’ingrediente per un nuovo pianeta possibile”.

Mirella Ceruti, Regional Vice President di SAS e ospite del festival, ha cercato di riassumere la natura dei dati: “Sono il nostro nuovo petrolio, ma non bisogna pensare a essi come a qualcosa di magico. Il dato, se non viene raccolto ed analizzato nel modo corretto e se non gli fai la domanda giusta, non ti dirà nulla”. Ceruti ha quindi spiegato quanto l’uso corretto dei dati possa assistere a una transizione tecnologica più sostenibile, permettendoci ora una preparazione più efficace ai nostri bisogni del futuro. Un esempio particolare di questo approccio è la collaborazione con il Malala Fund: nei territori soggetti a disastri naturali si registra, nel periodo susseguente l’avvenimento, un tasso di abbandono scolastico delle ragazze maggiore rispetto a quello dei ragazzi. Sapendo del nesso tra il cambiamento climatico e l’intensificarsi di fenomeni climatici estremi, si possono così analizzare i dati per creare un indice delle zone maggiormente a rischio. In questo modo si può provvedere alla costruzione di strutture e all’invio di risorse e fondi che garantiscano la sicurezza della popolazione e la continuità dell’istruzione dei ragazzi.

I dati hanno anche un ruolo nelle questioni attuali, permettendo uno studio e un adattamento alle condizioni del presente. Il progetto “Rain Forest” è volto proprio a questo. Lanciato sempre da SAS, consiste nella creazione di un’intelligenza artificiale che sia in grado di individuare zone a rischio di deforestazione dalla sola analisi di immagini satellitari. Si tratta ancora di un progetto in via di sviluppo, dato che l’intelligenza artificiale ha ancora bisogno di “imparare”. Ceruti invita chi fosse interessato a visitare il loro sito per “insegnare” all’intelligenza artificiale a individuare interventi umani dalla sola analisi di immagini satellitari. Le potenzialità dei dati sono infinite, naturalmente: chi ne fa uso deve farlo in modo etico, nel rispetto della privacy delle persone, come ricordano anche gli ospiti dell’evento.

Quello che risulta dal discorso sviluppatosi nell’ambito del festival di National Geographic può essere riassunto con i due termini: ‘responsabilità’ e ‘consapevolezza’. La responsabilità, da un lato, delle aziende di ridurre il proprio impatto sull’ambiente e di chi comunica di creare un discorso trasparente, chiaro e costruttivo. La consapevolezza, dall’altro lato, dei singoli individui nell’uso dei mezzi di comunicazione e di quanto essi in realtà possano fungere come strumenti di pressione, in positivo e in negativo.