L’Italia è bella dentro: viaggio nelle aree “marginali” del nostro Paese

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Quando si dice che una persona è bella “dentro” si allude ad un insieme di caratteristiche molto più complesso di quello che costituisce il semplice aspetto esteriore. La bellezza che definiamo “interiore” è una bellezza profonda, intima, personale. Per riconoscerla bisogna armarsi di accortezza e dedizione, attenzione e costanza.

È questa la bellezza dell’Italia che racconta Luca Martinelli nel suo libro L’Italia è bella dentro (ed. Altreconomia, 2020) un viaggio attraverso le aree cosiddette “marginali” del nostro Paese, le storie di chi le vive e di chi dà loro vita, dei progetti, delle incredibili opportunità che questi luoghi offrono e delle loro immense potenzialità. Per un’idea nuova e – forse oggi più che mai – attuale.

Luca Martinelli, autore del libro L’Italia è bella dentro (ed. Altreconomia)

Innanzitutto, vorrei chiederti di presentare il libro. Di cosa parla, come ne parla e perché ne parla?

L’Italia è bella dentro racconta le aree interne del nostro Paese. Le aree interne sono territori “marginali” – cioè distanti dai centri principali di erogazione dei servizi – che rappresentano però l’ossatura dell’Italia, quindi tutta l’area montana delle Alpi e l’Appennino ma non solo, perché ci sono delle zone considerate aree interne pur trovandosi in pianura (penso al delta del Po o al Sud Salento). Io ho avuto la fortuna di lavorare per due anni con la SNAI (Strategia Nazionale Aree Interne) che è un programma pubblico che nasce nel 2013 da un’intuizione di Fabrizio Barca – che allora era ministro per la coesione territoriale del governo guidato da Mario Monti – e che ha l’idea di dover portare servizi nei territori marginali, perché questo è l’unico modo per garantire abitabilità, quindi pari condizioni ai cittadini che scelgono di vivere in questi territori rispetto a quelli che abitano in ambito urbano, perché questo è l’unico intervento essenziale per garantire anche lo sviluppo locale. Barca, che comunque è economista e statistico, si rende conto che immaginare lo sviluppo – e quindi interventi per favorire l’occupazione e le attività imprenditoriali – senza garantire accesso ai servizi essenziali non è possibile.

Perché è importante parlare di aree interne?

Perché nonostante siano state, a partire dal secolo scorso, oggetto di continuo spopolamento, ancora oggi ci vivono circa 13 milioni di italiani, quasi un quarto della popolazione.

E perché hai scelto di raccontarle in un libro?

Perché storicamente – cito nell’introduzione il libro del ’77 di Nuto Revelli Il mondo dei vinti – i territori marginali venivano visti come il mondo appunto dei “vinti”, quindi un mondo ormai finito, una civiltà contadina ormai finita. Invece lavorando con la SNAI, che è una strategia che si costruisce nei territori e ci ha dato l’opportunità di attraversare le aree interne del Paese, io e le persone con cui ho lavorato abbiamo avuto la possibilità di vedere che c’è tanta ricchezza, ricchezza di idee, ricchezza di proposte, ricchezza di attività imprenditoriali e culturali che nascono e sono attive proprio in questi territori marginali. È a partire dalla volontà di valorizzare – attraverso quello che so fare io, che è scrivere – ciò che avevo potuto vedere con i miei occhi che nasce l’idea di questo libro.

A proposito del libro di Revelli, tu riprendi una sua citazione in cui lui definisce gli abitanti delle zone interne “i sordomuti”. Dice: «[..] Voglio che parlino gli emarginati di sempre, i sordomuti [..]»

Revelli nel suo libro sostanzialmente va a intervistare queste persone, va a intervistarle e le fa parlare. Dà loro voce e dà loro ascolto. L’idea della SNAI è di nuovo questa, ovvero, progettando le strategie di ogni singola area interna – cioè un insieme omogeneo di comuni in un territorio – con la popolazione locale, andando così a lavorare sul territorio, si cerca di dar voce, di ascoltare e di dialogare con i soggetti che ci vivono. Discutere con loro quella che è la loro immagine, costruire una strategia – ovvero un’idea di sviluppo – che corrisponda a quella che è la loro visione di quel territorio.

Normalmente, ovvero nella maggior parte dei casi, i progetti di sviluppo locale per i territori marginali venivano decisi al centro – dove per “centro” intendo la Regione o addirittura Roma. Dar voce a queste persone significa portare le loro istanze nella programmazione delle azioni e degli interventi pubblici, per portare i servizi che servono e per garantire un sostegno efficace allo sviluppo locale. Revelli dava voce intervistando e riportando; è un libro molto bello, crudo, fa parlare tutte le persone e le fa parlare su quello che è il loro vissuto. Ed è ai suoi “sordomuti” che ci si propone di dar voce: usare il vissuto delle persone, farle parlare, analizzare con loro quelle che sono le possibilità per costruire insieme a loro un’idea di sviluppo.

Non mancano certo né i progetti, né le idee, né la volontà di crescere. Cosa manca per dare voce a queste Aree?

Nell’ambito della SNAI mi sono occupato di comunicazione. Il nostro lavoro aveva l’obiettivo di costruire come una “sceneggiatura” che tenesse dentro tutto il racconto delle Aree Interne. Queste storie oggi molto spesso – soprattutto dalla stampa mainstream – vengono raccontate nell’ottica di rappresentare “l’eroe”, “il singolo”, la singola realtà: quello che è l’intento del libro è di non andare alla ricerca del singolo eroe ma di chi prova a integrare l’area urbana con l’area rurale. Questa retorica dell’eroe non è una che può aiutare la maggioranza degli italiani a comprendere quelle che sono le potenzialità di questi territori.

Da una parte, quindi, ci vuole questo sforzo di comunicazione ragionata riguardo i territori delle Aree Interne. Dall’altra ci vogliono più servizi. Perché quello che è fondamentale è questo. Ci vogliono più servizi territoriali. Ieri ad esempio parlavo con una sindaca dell’Alta Val Trebbia che mi diceva che loro hanno il problema dei medici, nel senso che mancano medici di medicina generale e quelli che ci sono si ritrovano dei carichi di lavoro eccessivi e quindi non possono garantire in maniera efficace attenzione alle persone. Con il risultato, tra l’altro, che medici di medicina generale si dimettono perché nelle grandi città la mole di lavoro è nettamente inferiore e molto più facilmente gestibile: molte meno persone e un ambulatorio invece che diversi ambulatori a mezz’ora di macchina l’uno dall’altro. Quindi succede che persone si trasferiscano dalla città alla montagna e che non possano accedere al servizio del medico di base.

Servizi e cittadinanza sono essenziali, ecco. Se si riportano servizi e cittadinanza allora sì che si può parlare di ritorno e di riabitare.

Un’ultima considerazione: stiamo attraversando un momento storico molto particolare. Le Aree Interne possono rappresentare una risorsa? Potrebbero assumere un ruolo importante nel “dopo”?

In termini di risposta alla situazione emergenziale stanno già rappresentando un modello. Per quanto riguarda il senso di comunità, ad esempio, ci sono almeno due realtà che io ho raccontato nel libro – che sono le cooperative di comunità di San Leo in provincia di Rimini e di Biccari in provincia di Foggia – che si sono attivate dal primo giorno in cui ha avuto inizio la situazione emergenziale per creare un servizio di comunità a favore degli anziani e delle persone fragili del territorio, quindi portare e consegnare a casa alimentari e farmaci.

Per quanto riguarda il tema della didattica a distanza, io nel libro racconto il lavoro dell’INDIRE – che è un istituto di ricerca del Ministero dell’Istruzione nell’ambito di un progetto che si chiama “Piccole Scuole” (che sono in molti casi le scuole delle Aree Interne e delle isole minori). INDIRE ha attivato sin dalla prima settimana di marzo dei corsi di formazione per insegnanti e dirigenti scolastici per spiegare come si fa la didattica a distanza: paradossalmente le scuole delle Aree Interne si sono trovate avvantaggiate e in grado di formare gli altri in questa modalità di lavorare nuova. E se si prospetta la fine dell’anno scolastico in queste condizioni, hanno sicuramente dato un contributo essenziale affinché si potesse lavorare nella maniera più efficiente possibile data l’emergenza.

Per ciò che concerne un ragionamento sul futuro, è molto difficile immaginare – e impossibile conoscere – le dimensioni di quello che sarà. Io ho la percezione (ma questa è la mia percezione!) che determinati ambienti urbani sovraffollati – almeno nel medio termine – saranno difficili da vivere. Quindi semplicemente mi chiedo se non sia necessario quantomeno immaginare altri stili di vita. E questo può voler dire ritorno verso le Aree Interne, dove sì ci sono condizioni di salubrità migliore. Questo però dovrebbe accompagnarsi, da parte dello Stato, ad interventi (in parte già gestiti dalla SNAI) che lo incoraggino e permettano: penso alla telemedicina, allo sviluppo delle reti territoriali di assistenza per quanto riguarda il supporto sanitario, alla banda larga per garantire la possibilità di una connessione efficiente (non solo per la scuola ma anche, ad esempio, per le attività amministrative dei comuni).

Quindi senz’altro – ed è una lettura che danno in molti: io sono semplicemente un giornalista, quindi leggo gli studiosi anche in queste settimane – potrebbe esserci una riserva di spazio nei territori delle Aree Interne. Una riserva di spazio che poi dovrebbe essere rimodulata su attività anche economiche; ad esempio: su tutte probabilmente una delle risorse meno valorizzate del nostro Paese è quella forestale, con la possibilità di gestire in maniera ordinata i boschi invece di lasciarli crescere senza alcun controllo e senza alcuna coltivazione; così come l’agricoltura di qualità; penso anche al vino: ci sono molte eccellenze che si producono nei territori delle Aree Interne. Siamo comunque in una fase ancora prematura per poter immaginare che cosa sarà. A me piace che nel gruppo di lavoro che è stato nominato dalla Presidenza del Consiglio per ragionare sul dopo ci sia Enrico Giovannini: che non solo è stato Presidente dell’ISTAT, ma soprattutto oggi è portavoce (e ideatore) della ASviS (l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) e in questa veste ha collaborato molto con la SNAI e con Fabrizio Barca ed è quindi uno di quei soggetti che ha chiara l’esistenza di una faglia tra città e aree rurali e dell’esigenza di ricomporlo, perché è ricomponendola che si crea un benessere maggiore e condiviso.

FOTO DI CRISTINA PANICALI

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