Momo Edizioni: un nuovo modo di percepire l’editoria

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di Soraya Avinotti e Vera Lazzaro

La quarantena è stata difficile per tutti, è costata molto soprattutto all’economia, ha danneggiato sia quella dei grandi che dei piccoli imprenditori. Ci siamo però dimenticati dei danni al mercato della cultura. Abbiamo avuto occasione di fare una chiacchierata con Mattia Tombolini, uno dei fondatori di Momo Edizioni, che ci ha raccontato come è stato il lockdown per una casa editrice appena nata come la sua.

Decidere di aprire una casa editrici, soprattutto data la situazione editoriale italiana, è una scelta coraggiosa. Com’è nata e da cosa l’idea di aprire Momo Edizioni?
Momo Edizioni è nata intorno al maggio 2019, con le prime pubblicazioni a settembre 2019, il nome viene dal romanzo tedesco di Michael Endi, in cui uno dei personaggi è una bambina il cui superpotere è quello di ascoltare ed indica anche il tipo di comunicazione che noi vogliamo con i nostri lettori,  cioè un mutuo dialogo. Molte collane hanno questo obiettivo: oltre a quella principale diLibriMonelli (indirizzata ad una fascia dai 6 ai 9), abbiamo prodotto anche libri dedicati agli adolescenti, come “Manuale di Filosofia Coatta” o “Pugni”; abbiamo pubblicato una collana di saggistica, che però abbiamo trattato un po’ come le altre case editrici trattano quella per bambini.
L’idea nasce da me, Alice Palumbo e Gianmarco Mecozzi. Tutti e tre venivamo dal mondo dell’editoria, in cui lavoravamo già da molti anni come precari. Abbiamo fatto un punto su quello che volevamo dal punto di vista culturale, e ci siamo resi conto di voler sviluppare un tipo di percorso intorno all’infanzia e alle nuove generazioni, diverso da quello di cui facevamo parte precedentemente. Ci siamo accorti che nel mondo dell’editoria l’unica fetta in crescita è quella dei ragazzi. Molte sono le case editrici che si sono dedicate a questa fascia, ma questo non è stato sinonimo di un aumento della qualità: al contrario, abbiamo visto riproporre gli stessi contenuti generalisti. A noi interessava fare un lavoro un po’ più radicale. Inoltre, abbiamo sempre vissuto in una condizione di precarietà così ci siamo detti che se avessimo dovuto essere precari in ogni caso, tanto sarebbe valso provare ad esserlo in maniera indipendente.

Si direbbe quindi in disaccordo con quanto viene spesso detto sul fatto che i giovani leggono poco?
Sì. In realtà, io sono abbastanza in disaccordo con quasi tutto ciò che viene detto rispetto ai ragazzi. Riguardo questo, penso che non sia vero che non ci sia interesse, e allo stesso tempo affermarne la mancanza è un atteggiamento che reputo sbagliato: le case editrici di solito si muovono attorno a un pubblico che credono già esistente, “il pubblico mi chiede questo e io produco questo”, mentre io parto da un ragionamento inverso, un pubblico si può anche creare, basta stimolarlo. C’è molto interesse da parte dei ragazzi, quindi in realtà quando si fa questa critica sui giovani non è poi tanto vero, ed è un ragionamento valido anche per gli adulti. Da quando ci siamo spostati dall’ambito saggistica a quello dei ragazzi c’è un flusso maggiore di pubblico, ogni presentazione ha molta partecipazione.

Potremmo indicare più di una casa editrice che usa i propri social network un po’ per fare da vetrina ai suoi prodotti, quello che invece si vede sulle pagine di Momo è una certa personalizzazione in cui si capisce che, al di là dello schermo, ci sono delle persone che si occupano dell’immagine e dei contenuti. Questa è stata una scelta di marketing consapevole o qualcosa di secondario che è venuto da sé?
Ragioniamo molto sul senso generale dell’utilizzo dei nostri social, ma dietro la gestione quotidiana non c’è una “macchinazione”. Usiamo i social come uno spazio dinamico, senza farci troppi problemi. Una volta che ci siamo messi d’accordo sulla linea da seguire, la gestione è molto spontanea. Da una parte facciamo delle campagne di tipo commerciale. Durante la quarantena abbiamo incentivato la vendita diretta, vendendo tutto dal nostro sito: un po’ un acquisto “a chilometro zero” dell’editoria. Anche dopo il lockdown, vorremmo continuare a incentivare il nostro sito, così da ridurre le percentuali dei distributori. Nel mondo editoriale il mercato si divide in due: tutto ciò che è distribuito e tutto ciò che muovono i distributori, quindi il nostro distributore prende i nostri prodotti, li porta nelle librerie e li gestisce anche con gli store online. I distributori prendono una parte enorme rispetto al prezzo di copertina ed è questa la parte che è stata più in crisi durante il lockdown: perché le librerie erano chiuse, gli store online erano bloccati o lenti. Ci piace che i nostri libri siano reperibili nelle librerie, ma ciò ha un costo molto elevato. Per sostenerlo, inventiamo delle campagne di scontistiche speciali o dei pacchetti dove mettiamo più libri insieme con uno sconto, dopodiché sui social inventiamo altre campagne di carattere più culturale e politico, riguardo aspetti che ci interessano e vogliamo mettere in risalto. Adesso abbiamo in corso la campagna “Mascherati”, che consiste nell’usare un libro al posto della mascherina contro i virus che hanno determinato questa crisi culturale. Io gioco molto sui social, mi piace mettere sulle pagine di Momo, ogni tanto, qualcosa che non c’entra niente con il nostro lavoro culturale.
 
Essendo una casa editrice appena nata, la quarantena non è stato proprio un toccasana. È stato difficile inserirsi nel mercato editoriale con il lockdown?
Sì, è stato difficile. Avevamo programmato più o meno una presentazione al giorno ed eravamo preparati per andare un po’ in giro per l’Italia. Tutte le presentazioni sono saltate e c’è stata una perdita a priori, sia su ciò su cui avevamo “investito” in termini di tempo ed energie, sia in termini di mercato. La chiusura fisica delle librerie, infatti, ha comportato e comporterà un grande buco nella nostra piccola economia. Noi ci siamo mossi comunque, abbiamo avviato una campagna con il pacchetto “Quarantena” per ragazzi e bambini, con uno sconto altissimo e un’aggiunta di disegni da colorare: ad ogni pacchetto aggiungevamo qualcosa di nuovo da regalare, e in più abbiamo anche iniziato a fare le consegne a domicilio. Questa cosa ci ha tenuto in piedi, ma in ambito culturale, in generale, varie problematiche sono state messe a nudo con il Covid. Il nostro intento era quello di sfruttare la cosa positivamente, avevamo anche avviato un appello chiamato “La cultura non viene mai dopo”, a cui hanno aderito tantissime persone, assessori compresi, anche per riorganizzarsi con principi etici e solidali diversi. Per esempio, gli editori si sarebbero potuti mettere insieme, pensare a delle forme di distribuzione attraverso consegne dirette, insieme a gruppi solidali. Noi per esempio abbiamo partecipato al “Libro Sospeso” con la Libera Repubblica di San Lorenzo e con altre realtà; a Bologna abbiamo portato i nostri libri ai ragazzi che si occupavano dei pacchi alimentari. Questa forma, magari, sarebbe potuta rimanere anche dopo il lockdown, non solo con gli editori, ma anche con altre realtà. Tanti precari nel mondo della cultura avrebbero potuto sfruttare questa cosa, e non ci siamo riusciti. Spero che questo discorso si possa riprendere più avanti, purtroppo non è la prima volta che tentiamo di “fare alleanze”, ma spesso gli editori sono i più ancorati alla distribuzione classica e alla tradizione, il massimo che sono riusciti a fare è stato una lamentela riguardo la distribuzione: queste iniziative in parte vanno bene, siamo d’accordo, ma mancano di protagonismo e coraggio. Eravamo tutti in attesa della riapertura delle librerie, ma sono più importanti le persone o il mercato? Io la vedo così.

Sempre durante la quarantena, avete sia allestito delle dirette indirizzate al pubblico più giovane sia caricato su YouTube un video-libro. Qual è stata la reazione dei genitori alla possibilità di lasciare i figli davanti a quello che è un mezzo, l’internet, di cui non si fidano?
Sì, abbiamo fatto qualche live, alcune molto partecipate proprio dai bambini, che ci scrivevano insieme ai loro genitori. L’idea era quella di capire un po’, visto che tutti parlavano dei bambini senza fare nulla per loro, chiedendo direttamente, quali fossero le loro esigenze. In un paese in particolare abbiamo chiesto loro di far sapere al Sindaco cosa volessero, ed è uscita anche una cosa molto carina: alcuni bambini hanno chiesto testi, altri un giro intorno al paese, cose così, ma anche cose che sarebbe bello fare concretamente. I genitori, in questa storia, secondo me sono parzialmente parte del problema: si interpongono tra i bambini e il resto del mondo come se fossero i “sindacalisti” dei bambini, mentre spesso con questi atteggiamenti riportano più la loro ansia che altro. A me sembra che venga trascurata molto l’opinione dei giovani in generale, e anche durante il post-pandemia la situazione non è cambiata. Ancora una volta il loro punto di vista è stato trascurato, non gli si è chiesto come abbiano vissuto la pandemia veramente, quali siano state le problematiche della didattica a distanza. In generale, sulle dirette, l’unica cosa che posso dire è che si è trattato di un esperimento divertente, sicuramente da ripetere.

Secondo te, il problema dei genitori con i social è dovuto alla loro ignoranza riguardo questo mondo o piuttosto alla mancanza di un’educazione per i giovani su come utilizzare i social?
La vera domanda da porsi sarebbe: chi conosce veramente i social? Sarebbe utile fare, e noi con Momo ci stiamo provando, un manuale di “autodifesa digitale”. Bisogna sapere che noi non gestiamo i social network a pieno, e non possiamo effettivamente farlo: funzionano con dei meccanismi che può conoscere solo chi ci lavora direttamente. Bisogna, secondo me, capire come si utilizzano. Tra l’altro, quelli che pensano di averne la capacità, spesso invece non ce l’hanno. Noi li usiamo in maniera molto cinica, li utilizziamo commercialmente come principale strumento di comunicazione, il ché ha conferito una certa, anche falsa probabilmente, visibilità. Oggi con i social network non solo puoi essere raggiungibile, ma vedere anche quanto lo sei: su ogni post, campagna o sponsorizzazione puoi sapere quanti acquisti sono stati fatti, quanto hai investito e quanto hai guadagnato, cosa che non si può sapere con una recensione. Ovviamente è importante farsi recensire sulle grandi testate, ma in questo modo non si può effettivamente conoscere quante persone vengono spinte all’acquisto. Anche qui, poiché i social network funzionano che più soldi gli dai più visibilità hai, gli strumenti sono sempre bilanciati rispetto a quel che spendi. Quello che è più un problema rispetto ai genitori è che hanno la convinzione di conoscerli spesso senza saperne quasi niente. Sono più loro a rischio rispetto ai ragazzi, magari i nativi digitali hanno un po’ più di distacco.

In un periodo in cui l’editoria italiana può essere divisa tra “tradizionale” e a pagamento che posizione assume Momo?

Noi non facciamo editoria a pagamento e ne siamo contrari. Rispetto a questo penso che il lavoro di una Casa Editrice debba essere non solo decidere questo sì, questo no, che è una cosa importante (soprattutto i no sono importanti). Quello che deve fare una Casa Editrice è avere un’idea di percorso culturale con i libri come strumento utile per portare avanti quel percorso. Abbiamo scelto di fare i libri perché crediamo che siano ancora utili come strumento culturale e politico nei confronti dei ragazzi. Se domani ci rendiamo conto che non funzionano più possiamo fare un’altra cosa, ma Momo rimane attiva, non siamo chiusi ad altre forme di comunicazione o altri strumenti. Una Casa Editrice deve avere un progetto non solo imprenditoriale, ma che abbia una prospettiva minima. Questa è la differenza fra autopubblicare e pubblicarsi con una casa editrice, noi facciamo un libro al mese, lo seguiamo, cerchiamo il modo di renderlo più vivo possibile.  Non c’è un libro che non seguo fino alla fine. Oggi bisogna differenziarsi sui contenuti e sul percorso. C’è questo equivoco che gli editori si mettono sempre su un piedistallo o nella loro torre d’avorio. Sono un mix tra intellettuali e commercianti, io stesso ragiono su come far quadrare i conti ma con Momo il lavoro che facciamo è di un altro tipo. In Italia ci sono state storie di grandi editori, Einaudi, Feltrinelli, ma questi imperi avevano alle spalle capitali che potevano finanziare. Fare editoria aveva uno scopo politico, prima all’interno del partito, poi al di fuori. Nonostante il settore sia molto stabile, gli editori non hanno questi fondi alle spalle e i grandi gruppi determinano la cultura del paese, anche quello di cui c’è bisogno di parlare, spesso lo rincorrono.

Tra i titoli figurano molti libri con tematiche delicate, come TRANSito, e abbiamo notato anche come rispetto ad altre case editrici lei abbia preso posizione su varie tematiche attuali, come il movimento Black Lives Matter. Definirebbe queste azioni come attiviste?

Sì, certamente. Me la rivendico tutta. Penso che il sapere serva a prendere posizione, e la cultura fa questo. Non esiste una cultura che non sia di parte. Chi dice di fare cultura non di parte dice il falso. Noi lo facciamo apertamente e dichiaratamente, siamo indipendenti, non siamo legati a nessun partito e non è nostra intenzione esserlo, però sulle nostre posizioni non facciamo un passo indietro. Spesso in Italia si tende a prendere la parola “cultura” mettendo sotto questo termine qualsiasi cosa, la cultura è tanto bella ha detto Conte: la cultura è fatta di artisti e di precarietà, e chi ci lavora lo fa all’interno di un contesto, ha sempre qualcosa da dire. Questo non vuol dire che non esista cultura disinteressata, ma in qualche modo la cultura serve sempre a prendere parte, in un momento come questo schierarsi è necessario. Quando rendi tutto uguale a tutto lo stai distruggendo.

In base a cosa scegliete che libri pubblicare e quali no?
Noi accettiamo libri che abbiano forte voglia di avere un dialogo con le generazioni in maniera radicale. Molte delle pubblicazioni fatte e che faremo nascono dalla nostra volontà di farle, ci viene in mente che servirebbe un libro che tratti un determinato tema e se manca cerchiamo chi è disponibile a scriverlo, lo affianchiamo a chi è disponibile a disegnarlo e nasce il libro. Questa è a parte creativa, che mi piace di più, ci riuniamo, ci informiamo. A noi questo lavoro piace, viene spontaneo. Ci arrivano anche tantissime proposte, che valutiamo volta per volta, una per una, ma ci vuole pochissimo per capire se c’è qualcosa che ci interessa. Non cerchiamo un libro bello pronto e fatto, ci interessa se c’è un’idea, qualcosa da trasmettere, se c’è una rete in cui proporlo. Se la forma è spuria, la mettiamo a posto, non ci interessa che tu sia il più grande scrittore di sempre, noi vogliamo il progetto. Avevamo pensato di fare il campeggio, la summer school di Momo, avremmo invitato gli autori e quelli che volevano proporsi a fare una settimana di incontri in cui ragionare delle varie collane, dei libri fatti, gli autori portavano la loro esperienza e vedevamo cosa usciva fuori. Forse può essere un modo meno verticale di impostare il lavoro editoriale.

Perché è stata creata la parte del sito “A Momo piace”? Cosa vuole mettere in evidenza?

Quando siamo partiti e abbiamo fatto il sito ci andava di non fare un sito del tutto autoreferenziale, volevamo avere anche un’area un po’ più aperta. Inizialmente ho pensato di mettere cose di altri, far vedere la rete Momo, che però non c’era ancora, sarebbe stata una cosa in divenire, sarebbe diventata come i vecchi siti con colonnina laterale con rimandi ad altri siti. Abbiamo scartato questa ipotesi e abbiamo pensato a qualcosa di più dinamico. Non si è ancora definito cos’è veramente, ma dentro ci sono racconti che riceviamo, fiabe cose estemporanee, rubriche (Precaria, Guerra quotidiana, persone che scrivono un racconto o una storia particolare). Per adesso lo usiamo per raccogliere testimonianze, cose che ci arrivano, editoriali. È l’ambito più laboratoriale del sito, ci piacerebbe implementarlo. Per adesso è così. Noi vogliamo mantenere una forma aperta, trovare contenuti unici sul nostro sito, così che si possa arrivarci non solo per trovare i libri ma trovare qualcos’altro. Non ci andava di proporre qualcosa di già visto.