Viaggio intorno alla mia camera (durante la quarantena)

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Sfogliando le pagine di una tragedia di Shakespeare o leggendo i versi dell’Infinito di Leopardi potremmo chiederci, “Che senso ha oggi leggere un testo pubblicato quattrocento o duecento anni fa?”. Certo, a scuola e tra le pagine delle riviste culturali viene continuamente ribadita l’importanza dei classici e del loro significato universale e atemporale. E pure in questi giorni, con la decisione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte di riaprire le librerie – decisione fin da subito accusata di rappresentare l’ennesima esasperazione della retorica italiana, che pensa più alla forma che al contenuto – è stato messo l’accento sul valore del libro.

Ma nel concreto, in un mondo in cui la notizia di poche ore prima è cartastraccia, che valore può avere un libro di ben mezzo secolo prima? In una società piegata da una pandemia, le cui catastrofiche conseguenze economiche e sociali avranno un impatto a lungo termine, come può un libro, un mero oggetto, dare speranza?

Una prima risposta ce la può dare lo studioso Jonathan Gottschall che, nel suo saggio “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani”, spazia tra i diversi campi della psicologia, delle neuroscienze e della letteratura per costruire un’analisi del libro. Gottschall definisce l’uomo ‘storytelling animal’ e pone la narrazione come discrimine tra l’essenza umana e quella animale.

“La vita umana, e specialmente la vita sociale, è profondamente complicata e la posta in gioco è alta. La narrazione permette alla nostra mente di allenarsi nel reagire ai tipi di sfida che sono, e sono sempre stati, cruciali per il nostro successo come specie”. Così, con la lettura, l’uomo può equipaggiarsi e riuscire ad affrontare il mondo, disponendo degli strumenti adatti per farlo.

E nonostante la stesura di antica data, un libro può rivelarsi un valido aiuto per decifrare il nostro presente e a volte può contenere insegnamenti di un’attualità impressionante. Ce lo dimostra lo scrittore francese Xavier de Maistre, fratello del più celebre Joseph, che fu costretto a un periodo di reclusione forzata in seguito a un duello. Così, alle porte del Carnevale del 1974, trascorse 42 giorni senza poter uscire di casa e colse l’occasione per scrivere un diario della sua esperienza.

In ‘Viaggio intorno alla mia camera’ de Maistre, prendendo spunto dagli oggetti che lo circondano, parte per un viaggio i cui confini sono delineati dalla sua stanza di 36 passi per lato. Evidente provocazione della letteratura di viaggio elogiata nel diciottesimo secolo, il cui emblema per eccellenza era il Grand Tour in Italia, la reclusione di de Maistre nella sua ‘cabina’ non può che entrare in sintonia con la situazione che affrontiamo oggi. L’autore – forse con una punta di ironia rivolta a quelli che lo hanno arrestato – dichiara però di poter solo giovare dalla sua condizione e anzi giura di aver voluto intraprendere un viaggio simile ‘assai tempo innanzi l’avvenimento che mi [tolse] la libertà’.

Così, alternando riflessioni filosofiche sulla duplicità della natura umana a descrizioni della propria camera, soffermandosi con sguardo meravigliato sui giochi di colori che la luce della propria finestra crea sul letto ed elogiando situazioni semplici come il poter dormire qualche minuto in più o il gioire al sentire il profumo del caffè, de Maistre si stacca dai contemporanei, percorrendo un “itinerario privato” che nella sua diversità ci può forse sbalordire più di un qualsiasi altro testo odeporico settecentesco. E, ancora più importante, ci permette di immedesimarci nel recluso Xavier e – forse – di riuscire a vivere con un briciolo in più di serenità il periodo che stiamo vivendo.

Certo, dobbiamo pur sempre ricordare che de Maistre era un aristocratico e che il suo periodo di reclusione fu vissuto tra gli agi e la compagnia di servitori e senza le preoccupazioni che stiamo vivendo noi oggi. Sarebbe impossibile dichiarare che possiamo tutti immedesimarci al cento percento in un personaggio come Xavier.

Non per forza dobbiamo concordare con de Maistre quando dice di essere entrato in sintonia con un personaggio tanto da poter ‘viaggiare con lui, come se mi trovassi col migliore de’compagni’. A volte, infatti, la nostra realtà è così difficile e angosciante che non vogliamo leggere una storia che ci ricorda quello che stiamo vivendo. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of American Medical Association e basato sulle analisi svolte su oltre 1200 operatori sanitari coinvolti nell’assistenza a pazienti affetti da Coronavirus in Cina, circa il 50% degli intervistati ha sperimentato sintomi di depressione.

Quindi, per citare nuovamente Jonathan Gottschall, ‘la posta in gioco è alta’, e a volte l’ultima cosa che vorremmo fare è leggere un libro che ci ricordi la situazione di confusione e sconforto che stiamo vivendo. A volte vorremmo solo scappare da tutte le notizie che sentiamo e rifugiarci in qualcosa che ci protegga e ci rassicuri. E anche qui, in quanto forma di escapismo, la letteratura ci può venire in aiuto.