La pedagogia dello straordinario: l’accoglienza di quattro bambini ucraini e l’esperienza della scuola Sacro Cuore di Novara

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Incontro Paolo Usellini, preside-pedagogista dell’istituto Sacro Cuore di Novara e presidente dell’Anpe, Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani, per la sezione Piemonte.

Paolo apre le finestre ed entra una luce nuova: così possiamo toglierci le mascherine rimanendo a distanza. Sembra che l’emergenza stia finendo. E ne inizia un’altra. 

Dallo scoppio del conflitto, la scuola Sacro Cuore di Novara è stata la prima in Italia ad accogliere nelle sue classi bambini e bambine provenienti dall’Ucraina, anticipando la circolare ministeriale, la nota n. 381 del 4 marzo “Accoglienza scolastica degli studenti ucraini esuli. Prime indicazioni e risorse”, da cui si legge: 

“Il nostro Paese, insieme ai partner europei, è impegnato ad assicurare accoglienza umanitaria a coloro che fuggono dai territori coinvolti dalla guerra in atto in Ucraina. Sono molti, in rapidissima crescita, i minori in età scolare costretti a sospendere la consueta vita quotidiana e a lasciare la terra d’origine, per fuggire ed iniziare un incerto viaggio. Tra le molteplici esigenze cui far fronte, è prioritario assicurare loro il proseguimento del percorso educativo e formativo, anche perché possano ritrovare condizioni minime di normalità quotidiana”.

“Emergenza significa dare cibo e vicinanza. Ma da preside cosa posso fare io?”. Questa la domanda di Usellini, da cui si è messa in moto l’azione progettuale che vede coinvolte due famiglie ucraine e l’Istituto Sacro Cuore di Novara. Sono quattro i bambini – tra i 6 e gli 11 anni – che hanno trovato a scuola uno spazio educativo e di convivialità. “Parlano un altro tipo di linguaggio: è stato sufficiente mettere loro una palla tra i piedi e vedere come giocavano a calcio e quante cose belle uscivano” prosegue il coordinatore pedagogico dell’Istituto. “Non ho fatto niente di così eccezionale: abbiamo semplicemente dato una risposta a un’esigenza educativa”. L’idea è una “scuola nella scuola”: un cammino che unisce i bambini ai compagni italiani attraverso le ore di musica, inglese e scienze motorie e i momenti del pranzo e dell’intervallo dopo una mattina loro dedicata per la lezione d’italiano. 

“Mi fa arrabbiare che siano considerati dei numeri: come fate?” si chiede Paolo, raccontando la difficoltà di ritrovarsi dentro un’altra emergenza e le misure messe in atto per garantire loro il diritto di continuare a imparare. Sono state individuate delle risorse dedicate: una maestra con delle ore a disposizione, un’insegnante in pensione e iniziative provenienti dai genitori degli alunni, che non si sono tirati indietro nel contribuire a un conto corrente creato appositamente. “Per ora funziona: loro imparano molto in fretta” aggiunge Paolo, mentre si sentono da fuori le voci dei bambini che attraversano i corridoi, dopo il suono della campanella.

Dal punto di vista psicologico come state gestendo il processo di accoglienza nella vostra scuola?
Si vede chiaramente che c’è un dramma che sta iniziando ad emergere: quando corrono e tirano un pallone non lo tirano per giocare, lo tirano per sfogarsi. Si percepisce quando passa la macchina della polizia: la prima volta che l’hanno vista erano preoccupati – vallo a spiegare tu che in Italia la polizia non ti avvisa che devi fuggire. 
Di queste due famiglie una si è ritrovata la casa distrutta dai bombardamenti, l’altra non è stata toccata particolarmente, ma hanno fatto entrambe trenta chilometri a piedi accompagnati dal nonno senza sapere se l’avrebbero rivisto ancora e non sapendo se rivedranno il loro papà. 
Penso che dovremmo ragionare molto come sistema scolastico, andando oltre quella che è la semplice lingua. Bisogna parlare un linguaggio emotivo, che permetta di elaborare quello che è stato il dramma.
L’associazione Vedogiovane di Arona sta aspettando una psicologa ucraina specializzata in vittime di guerra e qui all’interno della scuola abbiamo a disposizione Stefania, maestra e psicologa. Anche come Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani siamo a disposizione, dopo pane e pasta ci vuole un progetto educativo: siamo bravissimi come italiani a lanciarci nella carità e nella solidarietà, ma questa non sarà un’emergenza che durerà due settimane.  Non si tratta di situazioni che si concluderanno nel giro di due mesi. Noi per questi bambini dobbiamo pensare a un ragionamento di un anno e mezzo almeno: non è una condizione semplice. Così non poniamo le condizioni dell’assistenza reale: poniamo le sistemazioni, che possono andare bene solo per un certo periodo dell’accoglienza. Questi bambini però hanno bisogno di essere aiutati e seguiti e dobbiamo essere seguiti anche noi.

E dal punto di vista didattico e pedagogico come vi state muovendo? 
Sono programmi diversi, sono ordini di scuole diverse: là in Ucraina la scuola primaria inizia prima e finisce prima. Il bambino più piccolo alla materna sa già contare fino a mille. Sono condizioni differenti. 
Noi dobbiamo rispettare la loro cultura: quando tu entri in un Paese devi rispettare il luogo in cui sei e non devi dimenticarti da dove vieni. La stessa cosa quando accogli: devi rispettare il tuo patrimonio, la tua storia, ciò che sei, ma devi anche avere cognizione e rispetto di chi viene, con cosa viene e da dove viene.
Dobbiamo valutarla molto questa cosa: non ci si dimentichi che la realtà è proprio una guerra in corso e sarebbe interessante capire come aiutare queste persone a elaborare questa cosa. Se facciamo fatica noi, non possiamo immaginare loro.

Avete ricevuto delle linee guida dal Ministero dell’Istruzione?
Solo una circolare che diceva di accoglierli nel limite del possibile, che avrebbero mandato contributi su progetti. Si è parlato di mediatori culturali. Il ministro Bianchi si è esposto dicendo di iniziare a pensare a un piano per la scuola estiva, ma poi non si è detto più nulla.
Al momento l’unica funzione di accoglienza è riservata alle scuole statali, ma anche scuole paritarie come la nostra si stanno muovendo. Questo descrive sempre di più come noi facciamo fatica a essere parte del “sistema istruzione”.
È tutto lasciato alla nostra discrezionalità anche dal punto di vista pedagogico, e io ne sono contento, perché se sono libero posso andare avanti con la mia idea di progetto. Se inizio ad essere vincolato, voglio le motivazioni del vincolo.  Se sono solo burocratiche io non ci sto.
La “scuola di prossimità” con il coinvolgimento del territorio funzionerebbe benissimo, ma è una cosa che già c’è. Non che dovrebbe venire. Quando il Ministero dell’Istruzione inizia a parlare di ragionamenti per giugno e luglio non ha senso: l’emergenza è adesso. Pedagogicamente parlando è come dire “hai fame adesso ma ti darò da mangiare tra tre mesi”: qualcuno si sarà trasferito e il nuovo arrivo sarà massiccio. Arriveranno i poveri e gli orfani: non è una condizione di secondo ordine. Adesso sono arrivati i “ricchi”. Siamo bravissimi nella solidarietà, ma dobbiamo essere più bravi a progettarla.
Ma quando andremo in ferie loro cosa faranno? Ci daranno fastidio? Li porteremo con noi? Li lasceremo a casa? Spereremo nel nostro intimo che se ne vadano?

I bambini e la guerra: come hanno reagito? Quali sono state le loro domande?
In realtà sono loro che parlano a noi. Ho due bambini – di 3 e 5 anni – e il vero stravolgimento sarà questo.
I compagni di classe hanno reagito benissimo. Questo è stato un percorso di quaresima vissuto nel migliore dei modi: si parla di carità. Un esempio: venerdì arriva uno dei bambini più monelli di quinta e mi dice: “preside, non è possibile, non gli passiamo la palla!”.
Ma deve arrivare un bambino dell’Ucraina a farci capire cosa vuol dire stare insieme? 
Però sono contento: questa cosa mi colpisce molto. Non sono mai a caso, abbiamo la possibilità di capire come funzionano davvero certe cose. 

Guardando al futuro: cosa ti aspetti? Pensi che ci possano essere delle controindicazioni a essere catapultati nelle classi italiane?
Nel mettere insieme i bambini non vedo mai complicazioni, però vedo mondi diversificati, che devono trovare un punto d’incontro. Chiaramente sia dal punto di vista linguistico ma anche meramente pedagogico. 
Abbiamo rallentato e ora stiamo spingendo come dei matti: da preside dico che questo non funziona. Sono dell’idea che avremmo dovuto fermare tutti per un anno, rifare quello che non abbiamo potuto fare e poi ripartire. Non l’abbiamo fatto perché siamo sempre legati ai numeri, non alle persone. 
A me la parola integrazione sta un po’ stretta perché dovremmo ragionare per l’insieme, non a suon di “noi” e “voi”. Dovremmo porre delle basi. Studierei le condizioni: io ho fatto questa scelta perché mi sono reso conto che non avrei potuto prendere un ragazzo che ha vissuto questo dramma e buttarlo in classe. Sarebbe stato un parcheggio, ma non possiamo pensare a parcheggi. Potrei mettere fuori in cortile cinquanta sedie, ma qui abbiamo un’idea di quello che stiamo facendo e non possiamo permettercelo. 
È necessaria una narrazione diversa che non punti ai fatti di cronaca nera. “Cosa volete che vi venga a raccontare?” chiedo a molti giornalisti. Posso raccontarvi cosa farei io l’anno prossimo, che sicuramente non è buttarli in un sistema scolastico completamente diverso ma è pianificare anche un minimo di rapporto: capire dove sono arrivati e da dove ripartiamo. Non possiamo dar loro in mano dei libri totalmente in italiano. 
Adesso loro si sono organizzati, alcuni insegnanti autoctoni fanno lezione online dall’Ucraina. Funziona fino a un certo punto. Non possiamo pretendere che loro facciano la DAD come hanno fatto i nostri alunni italiani: abbiamo visto le conseguenze sulla mobilità, sulla relazione, anche quella va pensata e studiata molto bene.
Le associazioni sportive e lo sport sono uno dei canali preferenziali. Ma siamo bravi a diventare razzisti in 5 minuti, il “volemose bene” in breve finisce: ecco la mia grande preoccupazione. E quando inizieranno a non bastare i posti? Novara è una delle reti più organizzate in Piemonte – 2500 profughi ad oggi rispetto ai 700 di Torino – ma anche qui i posti iniziano a riempirsi. 
E poi i bambini son bambini. Bisognerà pensare anche agli orfani: da padre mi piange il cuore e anche io d’istinto accoglierei qualcuno in casa mia.  Stimo molto chi l’ha fatto. Ma con che attenzione posso accogliere qualcuno e farlo diventare parte della mia famiglia? Tutti gli equilibri sono da considerare e da tenere in conto: bisogna essere aiutati.
L’esperienza di quattro bambini e la loro voglia di divertirsi con un pallone come se non ci fossero barriere ci mostra come la pedagogia dello straordinario ci obblighi a ripensarci come educatori, pedagogisti e insegnanti. Ci chiede di rivedere i nostri programmi, i percorsi che avevamo in mente e di lasciare da parte i numeri: è la relazione che grida per essere mantenuta in vita.