Tolleranza Repressiva, 57 anni dopo

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Nel pomeriggio di domenica 23 gennaio, a Campiglia Marittima (Livorno), un bambino di 12 anni è stato picchiato da due ragazze più grandi di lui. La motivazione? Essere ebreo. Un episodio raccapricciante, che acquisisce un significato particolare, essendo accaduto pochi giorni prima della Giornata della Memoria. Un episodio che spinge a riflettere, a chiederci se le promesse, pronunciate in quel fatidico momento in cui le truppe sovietiche spalancarono i cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945, siano state effettivamente mantenute. Quelle promesse che sono state formulate da una società collassata, che desiderava rinascere dalle macerie, ma su nuove fondamenta. Una società che aveva pronunciato un “mai più”.

Eppure, già nel 1965 il filosofo Herbert Marcuse pubblicava il suo saggio: “La Tolleranza Repressiva”, all’interno del libro “La critica della tolleranza”, i cui propositi erano di mostrare che “la realizzazione della tolleranza richiederebbe l’intolleranza verso le politiche, gli atteggiamenti e le opinioni dominanti. […] La tolleranza viene estesa a misure politiche, situazioni e modi di comportarsi che non dovrebbero essere tollerati perché ostacolano – quando non distruggono – le opportunità di creare un’esistenza priva di paura e miseria”. Parole dure che possono suonare paradossali, visto che provengono da chi ha sperimentato in prima persona gli effetti dell’intolleranza e della persecuzione; da chi ha trascorso anni a cercare di comprendere le cause che portarono allo scacco della civiltà: il nazismo. Sulle prime si potrebbe pensare che ad animare Marcuse fosse un sentimento di vendetta, ma proseguendo nella lettura ci si accorge che a regnare è una lucida razionalità, che mostra come, tra le maglie della società, si stesse facendo sempre più largo un nuovo germe dell’oppressione che avrebbe potuto infettare le coscienze degli uomini e riportare, nuovamente, al terrore. Marcuse non scrive accecato dall’odio, desidera soltanto che si converta in prassi ciò che fino a quel momento era rimasta pura teoria: una società priva di paura, una società umana. Un messaggio di speranza per le generazioni future, ma anche un modo per metterle in guardia.

E oggi? Possiamo dire di essere riusciti a esaudire il suo, anzi, il loro desiderio? Abbiamo realizzato finalmente una società che possa dirsi propriamente umana, dove le minoranze non hanno più paura di far sentire la propria voce? I silenzi assordanti delle vittime dei campi di sterminio sono stati ascoltati? Una risposta abbastanza esaustiva a tali quesiti la si può trovare senza fatica, basta fare un passo indietro di un anno: il 6 gennaio 2021, dopo i risultati delle elezioni americane che proclamavano Joe Biden 46° presidente degli Stati Uniti d’America, migliaia di sostenitori del presidente uscente Donald Trump, hanno preso d’assalto il Campidoglio americano, convinti che a decretare la sconfitta del loro leader fosse stata una cospirazione. Le immagini di quell’attacco hanno rapidamente rimbalzato in giro per il mondo, finendo su ogni prima pagina dei giornali e su tutti i notiziari. Si vedono persone scavalcare le mura dell’edificio, un uomo sorridere alla telecamera mentre porta via un leggio, altri poggiare i piedi sulle scrivanie o fingersi parlamentari, la bandiera suddista viene fatta sfilare nel corridoio della residenza della democrazia più emblematica dell’Occidente. È la realizzazione dei timori di Marcuse.

A essere sfigurata non è stata solo la dignità del sistema americano. La semplicità con cui i rivoltosi sono riusciti a fare breccia nel cuore della democrazia, a vandalizzarla, ridicolizzarla, umiliarla rivela quanto fragili siano i suoi muri, che noi stessi abbiamo eretto negli ultimi settanta anni. Quei muri che dovevano tenere fuori, proteggerci da quel modo di pensare che aveva condotto ad Auschwitz, Birkenau, Dachau si sono rivelati costruiti con materiale scadente. Con facilità ci si può arrampicare su di essi e scalarli, e a chi minaccia la libertà e la giustizia con quel gesto, non tocca la stessa sorte di chi le cercava disperatamente allo stesso modo, le autorità si ritirano sopraffatte; una volta all’interno ci si può divertire con la democrazia come meglio si crede: la si può deturpare, derubare, fare il verso a ciò che è stato ridotto a niente più che a una maschera comica.

Qualche mese fa un altro episodio, stavolta in terra nostrana: a ottobre una folla coordinata da movimenti neofascisti, ha preso d’assalto la sede della CGIL in pieno stile squadrista, per ribellarsi alla “dittatura sanitaria”. Anche qui le forze dell’ordine riescono a sedare le violenze, non senza fatica, ma il problema è che ancora una volta la democrazia è stata sfigurata. Ancora più imbarazzanti sono i commenti che provengono da alcune frange della classe politica, che minimizzano l’episodio, quasi a dire: “Ma sì, sono sempre i soliti ultras”, come se fosse normale che una protesta a un certo punto si trasformi in un attentato violento.

Oggi assistiamo con orrore alla leggerezza con cui pronunciammo quel “mai più” nei confronti della barbarie. Perché ciò che è accaduto a Washington, a Roma, a Campiglia Marittima è anche colpa nostra, colpa di noi tutti come esseri umani. Siamo colpevoli di aver lasciato mettere ancora una volta radici al seme dell’ingiustizia e dell’odio, siamo colpevoli del laissez-faire con cui abbiamo reagito davanti ad un abuso verso un’altra persona, che sia a causa del colore della sua pelle, del suo orientamento sessuale, del suo sesso, del suo partito politico. In metro, per strada, sulle panchine di un parco, nella casa a fianco, ogni volta che abbiamo reagito voltando lo sguardo dall’altra parte, magari perché “è matto, potrebbe avere un coltello ed attaccarmi”; “non sono affari miei, meglio non mettermi in mezzo”; “tanto non succede nulla”; “tutti gli altri stanno guardando, perché dovrei intervenire io?”. Ogni volta che abbiamo tollerato che una violenza si consumasse in silenzio, è come se le avessimo dato diritto di esistere. Per questo essa ha spinto sempre più in là le proprie ambizioni, ha allargato i propri confini, per questo ha assunto – peggio ancora, ri-assunto – forme sempre più organizzate, fino ad arrivare a credere di avere il diritto e il potere di rovesciare un governo eletto e sostituirglisi, ancora una volta; il diritto di attaccare chi i diritti li difende; e addirittura il diritto di umiliare un bambino. Un bambino come quelli che “dentro i forni” – come gli hanno urlato quelle due ragazze – ci sono finiti sul serio.

A chi potrebbe obiettare, com’è giusto che sia, che una rivolta come quella di Washington, o l’attacco al CGIL, o delle ingiurie verso un bambino, non siano la stessa cosa rispetto al nazismo, si potrebbe rispondere con un: “È vero, non lo è ancora e spero che non lo sia mai”, ma questo non significa che siano episodi tollerabili in una società che si era promessa di lasciare l’intolleranza al di fuori delle proprie mura. il timore non è che siano i sostenitori di Trump a rovesciare i valori che reggono la democrazia, ma che qualcun altro si sia accorto della sua fragilità, e che sta perdendo sempre più la capacità di opporsi. A chi, invece, sminuisce la violenza quotidiana, si potrebbe rispondere che già Theodor Adorno, un altro filosofo ebreo scampato al massacro, stretto collega di Marcuse, si accorse che, per impedire che la barbarie si ripetesse, occorreva rifondare una morale che si basasse sui piccoli gesti, i minima moralia, come li chiama lui, poiché essi costituiscono la certezza che almeno una traccia di giustizia è ancora presente, pur piccola che sia, anche laddove vengono commesse le atrocità più gravi. Un “no” fermo e deciso a questi violenti atti di intolleranza, grandi o piccoli che siano, è l’unico modo che abbiamo noi oggi per rendere giustizia, per quanto possibile, a chi ieri ha dovuto soccombere.

Siamo ancora lontani dal trionfo dell’intolleranza, ma siamo sulla strada giusta. Finché essa abiterà sotto lo stesso tetto della tolleranza, sarà sempre vivo il pericolo per cui, un giorno, decida di diventare l’unica residente.