Vivere l’accoglienza

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“Tutti possono e debbono essere raggiunti, nessuno è escluso, nessuno è lontano”, queste belle parole usate da Papa Montini nella chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II sembrano calzare a pennello coi temi trattati nel convegno svoltosi il 14 maggio 2023 presso il Patronato Santissimo Redentore di Este (PD).

L’evento, organizzato dall’Azienda Sanitaria dei Colli Euganei, è stato un felice connubio di varie personalità e professionalità che hanno portato un contributo sui temi ai quali era dedicato il Seminario: adozione, affido e inclusione nelle loro più svariate sfaccettature.

Il pubblico auditore era, in realtà, il vero protagonista della giornata trascorsa assieme in quanto si trattava della stragrande maggioranza dei casi di famiglie che sono in attesa di venire assegnate ad un figlio adottivo.

La prima domanda che dovremmo farci dunque, anche a proposito dei numerosi e elevati interventi dei vari relatori è: perché adottare? Perché tendere una mano verso l’umanità in un mondo dove l’egoismo, dove l’“io” è preponderante rispetto ad un “noi” più inclusivo e che dà senso al nostro vivere in comunità?

Perché la vita sociale è fatta prima di tutto di incontro, di condivisione di momenti felici e tristi sempre alla ricerca del vero, del bene e del bello, indirizzati dalle nostre coscienze – Veritas vos liberabit – per dirla in latino.

Un popolo in ricerca di verità, non una massa, perché se si considera l’entità come “massa” si va a smarrire l’individualità e specificità di ogni persona, è composto da quei genitori adottivi che per varie ragioni cercano compimento nel loro sogno familiare adottando chi, più sfortunato di altri, non può vivere in condizioni umane con frequente promozione della propria dignità e sviluppo di talenti.

Le famiglie che adottano hanno fatto una scelta molto più importante: riconoscere che adottare la vita e prenderla per mano è riconoscere che l’altro “Non è altro che te stesso che ti guardi allo specchio”(cfr. A. Camilleri), l’altro diventa parte attiva del cammino di crescita.

L’adozione in Italia è, nel senso stretto del termine, posta a specifica vigilanza di Autorità Sanitarie e Giurisdizionali proprio per tutelare la serenità e sicurezza del fanciullo ai quali vanno riservate tutte le attenzioni del caso.

Con una recente innovazione normativa, come ben spiegato dalla dottoressa Laura Di Lella, ha portato ad un ruolo preponderante delle scelte poste in essere dall’Autorità Sanitarie, dandole maggior valore visto che è all’interno di essa che Psicologi ed esperti dello sviluppo del minore possono giudicare con dovizia di dettagli le scelte migliori per il futuro ragazzo/a adottata/o.

Accogliere la diversità è un piacere, un dovere prima di tutto che trova radicamento profondo nella nostra Carta costituzionale, dove si parla di diritti inviolabili e doveri inderogabili i padri Costituenti hanno proprio voluto sottolineare come se da un lato la Repubblica si riconosce un limite di azione con il cosiddetto “Diritto naturale”, ovvero diritti per i quali tutti possono essere chiamati portatori solo per il fatto di essere Umani, d’altro canto hanno voluto sottolineare che ad essi corrispondono doveri inderogabili, specificando anche con apposito esempio le attività di solidarietà sociale.

Che cosa si intende per solidarietà sociale, in questo caso?

Errando si potrebbe pensare alla solidarietà come un gruppo di istituzioni, in tale caso l’Azienda Sanitaria, le famiglie adottanti, gli specialisti, per semplificare una sorta di macchina statale predisposta che promuove, sviluppa e protegge l’adozione perché “sta bene farlo” nei confronti di questi malcapitati. Qui si sbaglierebbe.

La Costituzione non assegna allo Stato e alla Repubblica funzioni di solidarietà sociale per pietà popolare ma perché crede in quei valori che ben sono espressi dalla filosofia e pedagogia che troviamo in Jacques Maritain: L’Uomo e lo Stato a servizio del bene comune.

Per la Repubblica occuparsi di chi è più fragile non è un accessorio di cui vantarsi ma un autentico compito di civiltà che contribuisce al progresso umano, spirituale e materiale della società. Il ragazzo adottato, nel nostro ordinamento quindi non è solo un soggetto dotato di particolari attenzioni ma è esso stesso fonte di crescita e responsabilizzazione della collettività perché con le sue esperienze di vita potrà contribuire ad un sincero miglioramento di chi vivrà con lui e per lui.

Un dovere dunque accogliere che si può e si deve tenere per mano da parte di tutte le Istituzioni e dei cittadini. 

Il secondo passo è includere.

L’inclusione è quello step successivo che consente di integrare il “diverso” con la “normalità”.

Questo fenomeno avviene in moltissimi contesti, prima fra tutti va però la scuola.

Le nostre istituzioni scolastiche sono portatrici di una storica alleanza educativa specialmente nei confronti di quelle che possono essere definite le cosiddette “povertà educative”.

Sempre in ossequio al principio costituzionale e socio-pedagogico citato potremmo essere ben orgogliosi di come noi includiamo con autentico impegno questi ragazzi nei nostri contesti educativi.

Se è vero com’è vero che criticità, anomali ed inefficienze sono presenti non si può non negare come l’impegno quotidiano sia massimo, improntato alla precisa e massima soddisfazione di tutte le necessità che si possono manifestare, anche in considerazione della scarsità di risorse che sono carenti in vista di un fenomeno di evasione fiscale che è endemico, patologico e che riduce di molto le risorse destinate agli alunni destinatari di percorsi personalizzati, come i ragazzi adottati da vari contesti di provenienza che giustamente necessitano di particolari attenzioni.

Di recente il ministero dell’Istruzione e del merito ha licenziato le nuove linee guida per favorire lo studio degli alunni adottati, un segno tangibile di vicinanza teorica che andrà applicata con l’assunzione in pianta stabile di docenti di sostegno competenti che sappiano porsi non a servizio dell’alunno, ma dell’intera classe, solo così si fa inclusione: facendo capire che è il gruppo che si unisce per il bene di sé stesso perché credere che allargare i propri orizzonti sia più importante che costruire muri.

L’evento è continuato con domande, discussioni, momenti di dialogo informale che forse sono stati i più importanti.

Specialmente nella pausa pranzo ho avuto occasione di imbattermi in genitori titubanti, preoccupati per cosa avverrà nel loro futuro e nel futuro del ragazzo che si apprestano ad accogliere.

La preoccupazione di queste famiglie non è sinonimo di titubanza ma di grande senso di responsabilità: una grande parola che risolve tutti i problemi, anche quelli che sembrano trascinare nell’abisso.

“Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”.