«Le parole sono il modo in cui costruiamo il mondo»

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Intervista a Eleonora Camilli, giornalista per Redattore Sociale e La Stampa, su come il digitale abbia cambiato il modo di fare giornalismo

Nel giornalismo le parole vanno sempre pesate, è alla base del lavoro, ma c’è differenza al peso che viene dato alle parole tra carta stampata e giornali online?
Sicuramente sì, sui social è più facile far girare gli articoli online, e per veicolare i messaggi gli utenti ricercano degli slogan, anche nei titoli: vogliono leggere un titolo e capire di cosa parla l’articolo. In generale, le parole sono sempre importanti, le parole sono il modo in cui costruiamo il mondo, nessun termine è totalmente neutro. Il modo in cui parliamo ci dice molto di noi. Anche il modo in cui raccontiamo gli eventi all’opinione pubblica, perché possiamo raccontarli da diversi punti di vista. Il compito del giornalista è quello di essere il più possibile obiettivo e attinente alla realtà sostanziale dei fatti. Dobbiamo cercare di avere un linguaggio corretto nel riportare quello che viviamo e quello che vediamo, che non segua il desiderio della condivisione online, di diventare virale o di creare un’opinione. Credo che questo debba valere per tutti, anche in radio o in televisione. 

Cosa intende per linguaggio corretto?
Il linguaggio corretto è un linguaggio che si attiene ai fatti e che usa una terminologia che non è basata sulla politica, sul sensazionalismo, sulla propaganda, ma che cerca di rispondere il più possibile alle esigenze di quello che raccontiamo. L’esempio dell’immigrazione è un esempio molto calzante. A volte il racconto falsato che abbiamo è anche basato su parole sbagliate: un linguaggio non corretto che viene mutuato dalla politica, dagli slogan, dalla propaganda e non dalle leggi che regolano il fenomeno. Fino a qualche anno fa i telegiornali aprivano dicendo “Sbarco di clandestini a Lampedusa” perché “clandestinoera il modo di chiamare tutti i migranti, non c’era nessuna differenza tra “migrante”, “richiedente asilo”, “rifugiato”, allora era “Il clandestino”. Queste distinzioni sicuramente tolgono attrazione dal punto di vista del clickbait, ma sono il modo migliore per raccontare la faccenda.  

Spesso sui social, ma in generale su internet, le cose si diffondono in maniera molto veloce. Questo si applica sia alle notizie vere che a quelle false. Parlando di un tema delicato come quello delle migrazioni, quali sono i pro e i contro di utilizzare un sistema come quello digitale?
Non voglio drammatizzare e dire che non siano [sistemi] giusti, anzi, penso che i social siano un ottimo strumento per diffondere le giuste informazioni. Dipende sempre da come li utilizziamo. Hanno una pervasività che non ha il giornale cartaceo, perché il link di un articolo arriva anche su WhatsApp e raggiunge potenzialmente tutti, molto più dello strumento cartaceo. Lo strumento in sé è assolutamente positivo, perché funziona anche molto il passaparola, posso dire: “guarda un po’, ti giro questo”, lo metto su Instagram, menziono un mio amico su Facebook e glielo faccio leggere. L’aspetto negativo è sempre come viene utilizzato: si può incappare in un post completamente sbagliato che cambia il senso all’articolo, alla narrazione. Quante bufale sono state raccontate attraverso i social network! Su Facebook, soprattutto negli ultimi anni, si è parlato molto di migrazioni. Tantissime stupidaggini sono state veicolate da post di persone che dicevano: “Ve lo racconto io, io ho visto, io ho fatto…” ma poi all’atto pratico non c’era nulla di concreto. Forse l’aspetto negativo è che non tutti hanno gli strumenti per capire quale sia il contenuto fatto da un professionista e attendibile e quale contenuto invece è fatto appositamente per veicolare una bufala. Sicuramente è uno dei problemi dell’online. Dobbiamo stare molto attenti a non cadere in queste trappole, ci sono dei professionisti per diffondere fake news. 

Certo, negli ultimi anni si è anche diffuso Lercio, che gioca proprio su questo tipo di diffusione delle fake news creando notizie sensazionalistiche che dichiara dal principio essere false, ma fanno sempre il giro del web.
Qualche volta capita anche di chiederci se sia veramente Lercio, perché sono così verosimili. Questo vuol dire che c’è un problema, se quasi crediamo a ciò che scrive Lercio!

Su internet ognuno si può spacciare per chi vuole, scrivere di essere giornalista senza avere nessuna esperienza alle spalle e provare a fare propaganda spacciandosi per giornalista. Come si distingue un contenuto propagandistico da uno realmente informativo? 
Innanzitutto bisogna imparare a riconoscere la fonte, è fondamentale. Capita che anche sui giornali ci siano notizie non verificate o leggermente distorte volontariamente. In generale però so che se leggo una notizia su un giornale c’è anche la linea editoriale e l’orientamento politico dietro. Se non so chi l’ha scritta, se è un profilo “x” invece bisogna stare più attenti. Abbiamo visto durante tutto il periodo della pandemia quante fake news, anche sul Covid, sono state diffuse dai profili di utenti che raccontavano di parenti medici o infermieri che dicevano chissà cosa. Sicuramente non è facile, perché siamo bombardati da messaggi e da canali informativi: ci arrivano cose da ogni parte, anche dai social network. È sicuramente difficile difendersi dalla cattiva informazione ma lo sforzo che bisogna fare come utenti è quello di non cadere in queste trappole, capire cosa c’è all’origine. Ci sono anche giornalisti più attendibili di altri, se sono giornalisti esperti su una determinata tematica, difficilmente potranno aver detto cose sbagliate. C’è anche tanta offerta buona sui social, ci sono tanti account che raccontano le cose in maniera giusta.

La rapida diffusione dei materiali sul web impone delle nuove implicazioni etiche per un lavoro come quello del giornalista?
Secondo me la deontologia è sempre la stessa, non può cambiare con lo strumento, anzi: bisogna essere serissimi anche quando si scrive un post sui social, perché se sei riconosciuto come esperto su un tema, l’utente si fiderà anche di un post e non solo di un articolo. Io difficilmente scrivo un post sulle migrazioni, che sono la materia di cui mi occupo di più, se non l’ho verificato, anche se non è un articolo ma tre righe su Twitter, perché è in gioco anche la mia credibilità. Non è solo il mio dovere, mi conviene anche per rimanere una persona credibile. 

Sappiamo che tutto quello che scriviamo online lascia una traccia permanente, la famosissima “Digital Footprint”. Applicando questa conoscenza al mondo del giornalismo, in che modo è cambiato, se è cambiato il lavoro del giornalista?
Adesso si sta molto più attenti. A volte può venire l’istinto di rispondere [male] a qualcuno sui social, però alla fine si tende a farlo in maniera professionale, perché è ovvio che ti leggano anche i tuoi utenti e che quello incida sulla tua credibilità. Non è una cosa diversa rispetto a quello che fai normalmente. Lo strumento che uso di più io a livello professionale è Twitter, anche se adesso si chiama in un altro modo, e anche se gli altri social li uso più per cose più personali difficilmente metto dei contenuti che sono distanti dal mio profilo, perché mi seguono persone che mi conoscono come giornalista. Se ho qualcosa di interessante da condividere sugli argomenti che tratto lo faccio anche sugli altri canali. Quante volte ci capita di vedere i profili social di persone e rimanere stupiti perché magari ha detto una stupidaggine? Io credo che abbia cambiato in questo senso, c’è un’assunzione di responsabilità maggiore.

Con i nuovi strumenti che internet ci mette a disposizione, secondo la sua opinione, il giornalismo si sta muovendo verso nuove vie di comunicazione (video, audio o multimediali) rispetto all’articolo scritto?
Penso di sì: già oggi si chiede molto di più al giornalista. Alcuni giornali si stanno cimentando nel mondo social molto di più, anche con delle dirette, e il giornalista diventa spesso anche opinionista; oppure la diffusione dei podcast: quanti giornalisti si sono reinventati podcaster? Perché questo strumento avvicina molto. Io credo ci sarà una fusione, non ci si potrà più limitare a fare una cosa sola, ma questo lo vediamo già da un po’ di anni. 

Dal suo punto di vista, il giornalismo digitale ha allontanato o avvicinato le persone al mondo dell’informazione, sia a livello professionale che come lettori?
Sicuramente ha avvicinato entrambe le categorie, col digitale è più facile che l’articolo ti arrivi, quindi leggo quella cosa che mi capita sotto gli occhi per la quale non sarei mai andato a comprarmi il giornale. Dall’altra parte, sicuramente, anche i social e il digitale hanno alimentato il fenomeno del citizen journalism: tutti si sentono un po’ giornalisti, tutti si sentono in dovere di dire che i giornalisti non sanno fare il loro lavoro. Capita spessissimo di vedere un articolo sottolineato dove viene scritto “avete visto cosa hanno scritto qua?”

Anche con Medium, Tumblr e tutte le piattaforme di microblogging, no?
Esatto. È comunque un bene, è sempre importante che si moltiplichino le voci. Moltissimi blog sono stati aperti su tematiche di cui non si parlava e poi queste persone sono diventate esperte nel loro campo o giornalisti. 

Pubblicare articoli online, per lei personalmente, ha favorito o ostacolato la diffusione dei contenuti che ha scritto?
Io ho iniziato con l’online, tutt’ora lavoro con l’online e collaboro con La Stampa cartacea, sono due mondi diversi. Sicuramente l’online ha più facilità di diffusione, ma il giornale cartaceo è più autorevole. C’è questo doppio canale, secondo me l’importante è sempre essere precisi nel lavoro, io non faccio una grande differenza. È ovvio che quando si scrive per l’online bisogna evitare lo “sbrodolamento” perché se si scrive tantissimo bisogna anche un po’ spezzettare, altrimenti la lettura ne esce appesantita. Il cartaceo d’altra parte ha degli spazi definiti. Sono questi i limiti, alla fine non ci sono grandi differenze. 

Negli ultimi anni abbiamo visto la grandissima diffusione dell’attivismo digitale, con gruppi o individui che spesso sono anche articolisti per redazioni indipendenti o a volte anche grandi, a cui viene chiesto di scrivere dei pezzi sulla tematica di cui si occupano. A questo punto, che differenza c’è tra un attivista-articolista e un giornalista online, escluso il tesserino dell’Ordine?
Dipende, se ci si presenta per un movimento ci si presenta come portavoce quindi la sua è un’opinione, perciò è un opinionista. Può essere anche autorevole, ma è diverso da un giornalista che non è per forza portatore di un ideale. Io posso scrivere un articolo anche su qualcosa che non condivido, che non mi interessa o a cui non sono legata. Nell’altro caso riporto un punto di vista che con molta probabilità appartiene a una politica o a una strategia di advocacy. Tantissimi attivisti vanno sui giornali per portare avanti il proprio movimento, e quella persona non si presenta al mondo come obiettiva su quel tema, ma come portatore di interesse, che è diverso. Credo la differenza sostanziale sia questa. 

Per chiudere credevo fosse opportuna una parentesi sulla questione di Giulia Cecchettin. C’è spesso tantissimo attivismo social da parte del movimento femminista sul combattere la violenza di genere, e che l’online sia uno strumento utile lo sappiamo, ma quanto riesce a incidere veramente?
È una domanda da un milione di dollari.
Questa storia ha sconvolto tutti perché c’è stato anche un momento di speranza, in cui speravamo che non fosse morta, anche se dentro lo sapevamo tutti. Direi lo sapevamo tutte, soprattutto, che l’epilogo poteva essere questo. Mi stupisce l’età di questo ragazzo, che ha ventidue anni e ha fatto una cosa tremenda e ingiustificabile. Diciamo spesso che i ragazzi di adesso hanno più strumenti, sembra un po’ che l’idea del possesso e della violenza sia una cosa da vecchie generazioni e invece non è così. Il controllo compulsivo di cellulari e social viene spacciato per attenzioni o per amore, ma sono comportamenti totalmente sbagliati. Può essere positivo che se ne parli sui social, con tutti i movimenti e influencer che ci sono, dopodiché è molto difficile trovare una soluzione. Bisogna parlarne, parlarne sempre di più, prendere coscienza. Magari in questo momento se c’è una ragazza che vive una situazione in cui il fidanzato le controlla i messaggi, le dice come si deve vestire e guarda tutto il giorno cosa fa sui social, si fa una domanda, ed è bene che se la faccia. Il ruolo dei social, che sicuramente i ragazzi guardano più di televisione e giornali, è quello di trasmettere il messaggio, che adesso è la cosa più importante. 

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