La storia di Indymedia Italia, tra attivismo digitale e narrazione autogestita

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Intervista a Sara Menafra

“Fu chiaro durante il G8 di Genova, quando le strade si riempirono di attivisti con telecamere, macchine fotografiche, e storie da raccontare. Quello strumento di diffusione aperto tolse dalle mani dei media mainstream la narrazione di quei giorni, rivelandosi poi decisivo anche in sede processuale”.

Si legge così dal sito di Edizioni Alegre, sulla pagina dedicata al libro “Millennium Bug. Una storia corale di Indymedia Italia” (ed. Alegre, 2021) 

Pubblicato nel 2021 – come lascito di un gruppo di media-activist – ripercorre l’esperienza di Indymedia Italia. Ideato come progetto di comunicazione autogestita nei movimenti sociali, nasce nel 1999 con le mobilitazioni di Seattle, momento di inizio di quello che sarebbe stato il movimento no-global. Ciò che lo differenzia è la partecipazione diretta di chiunque: su Indymedia è l’utente a scegliere il contenuto. Attraverso i newswire, spazi senza censura, chiunque può aggiungere il proprio contributo, secondo il principio dell’open publishing. 

Ho incontrato Sara Menafra, una delle autrici (con Emanuela Del Frate, Peppe Noschese, Francesca Urijoe e Franco Vite) di “Millennium Bug. Una storia corale di Indymedia Italia” e media-activist nei primi anni 2000.

Di cosa ti occupi?
Sono la vicedirettrice di Open, giornale online fondato da Enrico Mentana. Ho iniziato come coordinatrice della redazione di Roma. Prima di questo ho seguito la cronaca giudiziaria tra Radio Popolare, il manifesto, Sole 24 Ore, il Messaggero. Prima ancora sono stata mediattivista, in particolare negli anni del movimento no-global. Ho partecipato al progetto di Indymedia nei primi anni 2000. Per il ventennale dai fatti del G8 di Genova abbiamo deciso di raccontare quell’esperienza in un libro, Millennium Bug,  che lì ha avuto il suo apice in Italia, pur avendo risuonato nel resto del mondo.  

In Millennium Bug hai raccontato “la storia corale di Indymedia”. Com’è nata la rete? 
Indymedia (Independent Media Center) nasce dalla necessità del movimento no-global di auto-raccontarsi. Assume la forma di indymedia.org, in un’epoca in cui il mondo digitale aveva dei limiti, ma anche delle possibilità di sviluppo. Le piattaforme social di oggi non esistevano, quindi si immaginò un sito internet tripartito: una colonna centrale con le notizie principali, una a sinistra con i link di tutti i nodi di Indymedia nel mondo e una a destra per la pubblicazione dei contenuti. Era basato su un programma non proprietario, open source, a disposizione di tutti e quindi anche dei movimenti, con una funzione innovativa per quegli anni: l’inserimento di video, fotografie, audio e testi in modo gratuito, con un proprio nickname ma senza la necessità di una vera e propria registrazione. Questa capacità tecnica lo rese subito un sito con delle potenzialità altissime, perché era possibile raccontare con immagini e video quello che accadeva nelle manifestazioni e in particolare in caso di violenza da parte della polizia. 
A Bologna in quegli anni nascono diverse mobilitazioni di protesta contro la globalizzazione:  il movimento no-ocse (contro il Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) si diffondevano le fanzine punk, Wu Ming e il collettivo Luther Blissett. Indymedia Italia nasce così a Bologna, con lo scopo di prendere in giro i media tradizionali e minacciarli con la controinformazione. Si costruì una falsa campagna lancio di Indymedia – chiedendo curriculum e mandando foto della redazione che provenivano dal laboratorio di informatica dell’università presa da dietro – alla quale anche attivisti credettero, inviando le loro candidature. 

Come è andata avanti la storia?
L’idea era che Indymedia dovesse esistere solo per quel giorno. Poi la manifestazione contro l’Ocse diventa significativa, vi aderiscono molteplici realtà italiane e così prende vita realmente, a prescindere dalla volontà iniziale di coloro che avevano organizzato lo scherzo. 
Il sito viene creato, le persone vi caricano del materiale e immaginano manifestazioni.
In quegli anni la partecipazione alle manifestazioni era molto attiva e avevano luogo diverse riunioni internazionali. Indymedia le seguiva, allargando la propria rete e collegandosi agli altri nodi internazionali. Nasce anche una rete europea, attraverso l’incontro con i partecipanti di altri Paesi durante le mobilitazioni, come ad esempio quella avvenuta in occasione della riunione preparatoria al G8 di Genova a Bruxelles. 

Qual è stato il ruolo di Indymedia Italia durante il G8 di Genova nel luglio del 2001?
La copertura dei fatti di Genova di luglio 2001 ha avuto un ruolo fondamentale. Infatti proprio nel 2021 – per il ventennale – il sito di Indymedia è stato reso accessibile, per mantenere la memoria di quello che è successo. Il video più importante, anche per il contributo ai successivi processi, è aggiornamento #1, consegnato alla Commissione Europea per i Diritti ed alla corrispondente commissione ONU ed è contenuto negli archivi digitali di archive.org. Da qui si legge che “Non è un documentario. È un atto di accusa su alcuni fatti molto precisi accaduti a Genova. Aggiornamento#1 è un film di poco meno di mezz’ora interamente dedicato a Genova, ma è anche il primo video di movimento con una lunghezza consistente scaricabile direttamente da Internet. Il nome atipico e spartano risponde perfettamente al contenuto: Aggiornamento#1 è l’insieme di 5 clip su cinque fatti accaduti nei giorni del G8. Episodi salienti che, mettendo assieme immagini e testimonianze raccolte, restituiscono il clima insieme tragico (quanto la clip dedicata alla incursione alla Diaz) surreale (come il mercoledì dei mille pacchi bomba) ed anche creativo (la clip sulla Tactical Frivolity del cosiddetto Pink bloc) respirato nelle strade genovesi” [n.d.r.].
Durante le manifestazioni no-global che si sono svolte a Genova nel 2001, poi, come Indymedia ci siamo occupati della preparazione digitale. Abbiamo messo dei computer a disposizione degli attivisti che partecipavano alle manifestazioni garantendo a tutti – non solo ai giornalisti – la possibilità di raccontare ciò che stava accadendo. La nostra apertura indiscriminata, in modo orizzontale e trasversale, è stata poi contestata. 

Fino a quando è durata l’esperienza di Indymedia Italia?
Un primo momento di chiusura è avvenuto intorno al 2005, con un successivo tentativo di ripresa in cui si voleva dare spazio a iniziative dei nodi locali e cittadini. Dopo questa esperienza è stato nuovamente chiuso a causa della diffusione di commenti d’odio che intasavano il sito in un modo non più controllabile, causando problemi di gestione.

Invece qual è stato il ruolo di Indymedia all’estero?
I principali campi d’azione sono stati l’Argentina e la Palestina.
In Argentina Indymedia ha seguito le manifestazioni del 2001 a Buenos Aires, “Cacerolazos”, conosciute per il motto “¡Que se vayan todos!”.
In Palestina il progetto si è diffuso con un proprio nodo locale, a cui hanno aderito anche pacifisti israeliani.

Cos’è diventato oggi l’open publishing?
Oggi generalmente le persone utilizzano software proprietari, alle quali non è previsto un libero accesso. Invece gli strumenti a licenza open source, non proprietari, sono molto di nicchia. Noi di Indymedia siamo nati a seguito della riflessione che internet non dovesse avere proprietari e che dovesse fornire strumenti da mettere a disposizione della collettività. 
Mi considero parte di coloro che sono preoccupati per il fatto che si usino sempre e solo strumenti proprietari, anche se credo che le persone riescano a far vivere i contenuti anche sulle piattaforme.

Cosa significa per te attivismo digitale oggi? Cos’è cambiato rispetto a ieri?
Credo che quella sul fact-checking, la verifica delle informazioni, sia una delle discussioni più interessanti in questo momento. Influenza anche i media tradizionali, e mi sembra significativo che oggi i contenuti dei media tradizionali possano essere messi in discussione. Forse le mobilitazioni di questi anni hanno un ruolo anche nel mondo digitale. Questo significa che le persone non si accontentano, esigono la messa in discussione dei contenuti e la ricerca della prova dei fatti.

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