Ius soli e ius culture, il flashmob Saltamuri di dicembre a Roma

Ius soli e ius culturae: muri da saltare e ponti da costruire

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«Trasformare i sudditi in cittadini è un miracolo che solo la scuola può compiere». Così parlò Piero Calamandrei, rivolgendosi agli insegnanti durante un discorso nel dopoguerra. 

Oggi potremmo definire queste affermazioni come un inno allo ius culturae, il diritto di un minore straniero ad ottenere la cittadinanza del Paese in cui è nato o in cui vive da un certo numero di anni, a condizione che abbia frequentato regolarmente almeno uno (o più) cicli di studio. Un diritto che in Italia non è ancora riconosciuto.

Nel nostro Paese, la principale modalità di acquisizione della cittadinanza si basa sullo ius sanguinis: si ottiene la cittadinanza per il semplice fatto di essere nati, adottati o discendenti da cittadini italiani.

Chi nasce in Italia da genitori stranieri deve così attendere il diciottesimo anno di età per richiedere la cittadinanza e deve prepararsi ad affrontare una burocrazia macchinosa. 

Esiste una possibilità residuale di acquisire lo ius soli: se si nasce sul territorio italiano da genitori apolidi, ignoti o impossibilitati a trasmettere la propria cittadinanza al figlio secondo la legge dello Stato di provenienza. 

Le leggi seguono i processi sociali del Paese e la trasmissione della cittadinanza attraverso lo ius sanguinis fu una mossa giuridica necessaria per mantenere il legame con i molti emigrati italiani che lavoravano all’estero e attraverso le rimesse contribuivano allo sviluppo del nostro paese. Oggi le ragioni sociopolitiche di chi chiede l’approvazione di ius soli e ius culturae sono analoghe: chi nasce nel nostro paese è una risorsa, chi studia nel nostro paese è una risorsa. Sono risorse che vanno incoraggiate e tutelate.

La cittadinanza è più di un semplice documento, è il riconoscimento di appartenenza a uno Stato e a un insieme di diritti e doveri che donano dignità e libertà all’individuo. Sono i valori su cui si fonda la ragion d’essere del nostro stato democratico e le Convenzioni universali a cui l’Italia ha aderito. Paradossalmente, se questi valori si acquisiscono principalmente con il riconoscimento di cittadino, è proprio la modalità attuale di acquisizione della cittadinanza che continua a dare vita a discriminazioni che pesano sulla vita quotidiana di bambini, ragazzi e adulti. 

Per la legge, se hai un genitore italiano, hai diritto ad esserlo anche tu. Se nasci in Italia da genitori stranieri, no. Se studi in Italia, magari anche fin dall’infanzia, e sei figlio di genitori stranieri, no. 

Lo scorso ottobre è ripartito – in commissione Affari costituzionali della Camera – l’iter delle proposte di legge sulla cittadinanza italiana agli stranieri, grazie anche alle diverse mobilitazioni, nelle strade e nelle piazze, che hanno richiamato l’attenzione sulle discriminazioni dovute a tali vuoti normativi, incoraggiando quindi il processo decisionale della politica italiana. 

In prima linea c’è #italianisenzacittadinanza: «Abbiamo età diverse, siamo nati in città diverse ma accomunati dall’essere cresciuti nel Belpaese. Siamo tutti italiani con una sola particolarità: non abbiamo un documento che lo possa testimoniare. Siamo figli di una patria che non ci riconosce« recita il manifesto.  Con loro anche il Movimento di Cooperazione Educativa che, ritenendo responsabilità del mondo educativo porre gli argini a discriminazioni di ogni forma, ha riunito a uno stesso tavolo associazioni, enti e singoli per analizzare la situazione italiana e sviluppare una linea comune e condivisa. 

È nato così il “Tavolo SaltaMuri” oggi composto da oltre cento associazioni che promuovono azioni educative propositive per l’accoglienza, la convivenza democratica e la rimozione di ostacoli che creano disuguaglianze ed ingiustizie. Tra muri da saltare e ponti da costruire c’è un fermento di donne e di uomini che non hanno intenzione di abbandonare la causa, che continuano a resistere e a lottare.  

In questa resistenza politica, il mondo dell’educazione è in prima linea. «È ora di aprire la porta e far entrare una nuova immagine dello straniero» racconta Graziella Conte, un’insegnante di italiano presso il CPIA, che con estrema lucidità spiega la sua visione del mondo. «È necessario smettere di appiattire l’idea di indigente su di esso e abbandonare quello sguardo superficiale che annienta ogni potenziale relazione, perché è solo con un’esperienza di contatto relazionale reale, non attraverso i media o i discorsi ideologici, che possiamo smettere di percepire il migrante, lo straniero e l’altro, come una minaccia». «Il mio lavoro me lo insegna tutti i giorni – conclude emozionata l’insegnante – ed è un mondo complesso ed affascinante che ritrovo ogni volta che rientro in aula». 

Nel mondo educativo e nella battaglia per i diritti, Franco Lorenzoni, maestro elementare e autore di I bambini pensano grande (Sellerio), da anni mette a disposizione le proprie competenze. «I ragazzi che sono in Italia sono ambasciatori del nostro paese, imparano la lingua prima dei loro genitori, gliela insegnano, sono italiani», spiega Lorenzoni. «Il problema è che sono italiani, ma senza diritti. Non possono andare alle gite all’estero, in molti casi non possono fare gare agonistiche e gli viene tolto ogni giorno il diritto di sentirsi a tutti gli effetti come i loro compagni di classe».

«Costruire una società giusta», spiega al microfono il prof. Lorenzoni davanti piazza Montecitorio durante il flashmob dello scorso 17 dicembre in sostegno allo ius culturae e allo ius soli, «in cui l’arte della convivenza sia sperimentata in tutti i posti, nelle scuole come nei quartieri, rende tutti più sicuri perché si dona un’appartenenza a coloro che stanno vivendo quel momento delicato dell’essere a cavallo tra due culture».