Obesità infantile, in Italia un problema che riguarda 100mila bambini

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Un terzo dei bambini italiani di età compresa tra i sei e i nove anni è obeso. Si tratta di circa centomila bambini, un dato che pone l’Italia capolista assieme, in percentuale, a Cipro) nella classifica europea in questo campo. A dirlo è il report della ONG “Helpcode”, dal quale emerge un gap importante sia socio-economico che geografico tra le due metà della nazione.

La causa principale: la tendenza a rivolgersi sempre più verso cibi spazzatura, a discapito della tradizionale dieta mediterranea. Tale orientamento è causato sia dalla globalizzazione e dall’importazione del “modello americano” in Italia, sia da una questione di accessibilità: gli alimenti poco salutari e di bassa qualità costano meno.

Questo porta le persone con scarsa disponibilità economica a rivedere le proprie abitudini alimentari, come è successo per circa un quinto delle famiglie italiane negli ultimi anni, e a favorire l’acquisto di prodotti poco sani.

Se questo, in linea generale, è valido per tutti, l’incidenza del fenomeno è però proporzionale alla latitudine in cui si vive: il Mezzogiorno è quello che ne ha risentito di più, seguito dal Centro Italia e infine dalle regioni settentrionali, con il picco di obesità infantile in Campania (40 per cento), seguita da Molise e Calabria. Sul divario alimentare, inoltre, pesa anche lo scarto educativo tra le due metà del paese, essendo stato dimostrato che nelle famiglie dove i genitori possiedono un titolo di studio elevato vi sia maggiore attenzione all’alimentazione dei figli. In particolare, si dimezza il rischio di obesità in un bambino quando la madre ha un titolo di studio superiore al diploma. Confrontando i recenti dati Istat, è fin troppo semplice notare il dislivello educativo tra sud e nord.

Ad abitudini alimentari sbagliate si associa, nei bambini e nei ragazzi italiani, anche uno stile di vita piuttosto sedentario. Secondo il rapporto Istat “Stili di vita di bambini e ragazzi”, nato dalle ricerche del biennio 2017-18, quasi due milioni di minori non pratica alcun tipo di sport né di attività fisica.

Anche in questo caso sono osservabili differenze sostanziali tra famiglie di diversa situazione economica e differente collocazione geografica: la percentuale dei ragazzi del nord che pratica sport è molto più elevata di quelli del sud, mentre i ragazzi delle famiglie con una fascia di reddito medio-bassa sono meno propensi a svolgere attività fisica.

Oltre che l’ambiente culturale, una delle cause più incisive è l’assenza in alcune zone, specialmente nelle periferie, di strutture sportive adeguate ed accessibili.

Una delle misure su cui, in Italia, si discute nel merito del problema è la cosiddetta “sugar tax”, ovvero una tassazione sulle bevande eccessivamente zuccherate. Il provvedimento, voluto soprattutto dal Movimento 5 Stelle e che ha trovato l’opposizione, all’interno delle forze di governo, soprattutto di Italia Viva, è previsto nella manovra di bilancio 2020 e avrà effettiva attuazione dal prossimo 1 ottobre. In Europa, i casi di riferimento dell’applicazione di una simile metodologia sono la Francia e il Regno Unito. 

In Francia è presente dal 2012 una tassazione fissa sulle bibite zuccherate, modificata nel 2018 in una tassa progressiva in base ai livelli di zucchero presenti. 

Nel Regno Unito è in vigore dal 2018 una tassazione di 0,20 euro per litro nelle bibite contenenti dai 5 agli 8 grammi di zucchero ogni cento ml, mentre per quelle che superano tale limite la tassa è di 0,27 euro. 

In Italia, invece, l’idea è quella di imporre una tassa fissa di 0,10 euro per le bevande che superano i 25 grammi di zucchero per litro ed 0,25 euro per i prodotti solubili, il che vuol dire un aumento di circa 3 centesimi per una comune lattina di Coca Cola da 330 ml.

Confrontandola con i modelli esteri, si osserva che lo stato italiano tasserebbe prodotti con meno della metà di zucchero presente rispetto a Regno Unito e Francia. Ciò vuol dire che le aziende produttrici di bevande ad alto tasso di zucchero, per non risentire dell’imposta, dovrebbero modificare in modo tanto drastico quanto inverosimile le proprie ricette. Ciò comporterebbe un aumento dei prezzi che, a fronte dei dati esteri, non sembra incidere in modo significativo sul loro utilizzo (https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/tassa-zucchero-ecco-cosa-dice-quali-effetti-avra/e82b2bd4-24bd-11ea-9531-c9ac2e82635a-va.shtml).

Viene quindi da chiedersi se una tassa isolata sulle bevande zuccherate posta in questi termini sia davvero la via adeguata per risolvere un problema che è l’espressione dei più profondi ed eterni conflitti italiani, o se non sia piuttosto l’ennesima toppa economica.