Buone pratiche: esperienze sulle politiche territoriali del cibo in Italia

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Una condivisione di attività concrete e realizzabili che si possono e si debbono fare e per le quali il motore trainante è la ricerca e l’associazionismo.

Si potrebbe così definire il bel momento di condivisione che c’è stato nella seconda giornata de #INSIEMEPERGLISDG.

Giaime Berti, ricercatore presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa nonché componente della Rete Italiana Politiche Locali, ha tenuto il primo intervento durante il quale ha spiegato in modo specifico quanto già accennato alla nostra breve intervista pubblicata nelle Instagram stories.

Che cosa significa una best practice alimentare?

Per best practice alimentari si intendono quelle scelte poste in essere dal governo e dalle amministrazioni locali – in questo caso – che hanno come fine la salute dei propri cittadini attraverso la promozione di stili di vita sani alimentandosi con cibi salutari. Favorire un’alimentazione di un certo tipo ha anche delle positive ripercussioni sul processo di crescita economica locale.

Al momento in Italia è totalmente assente una normativa che consenta l’applicazione di piani di ricerca volti a valorizzare cibo locali, sani e promuovere nel territorio circostante.

Il gruppo di ricerca del quale Berti è componente si fonda essenzialmente sul volontariato dei membri; un suo riconoscimento non solo nell’ambito economico potrebbe essere un segno di vicinanza che consenta di andare in avanti in questa direzione.

La provincia di Pisa già a fine dell’ottocento studiò per prima una sorta di piano per promuovere fra i cittadini scelte alimentari corrette per vivere più a lungo.

Cosa significa oggi sostenere pratiche di salute alimentare pubblica?

Ad esempio promuovere un sistema di mense scolastiche di alto livello qualitativo per il bene degli alunni e delle relative famiglie.

Il periodo del primo lockdown ci ha fatto capire come la sospensione delle attività didattiche e la conseguente chiusura delle mense scolastiche hanno causato una perdita per molti alunni di un pasto caldo e sano al giorno.

Le politiche alimentari devono essere locali e aperte al tempo stesso alla globalità, in questo consiste la vera sfida: valorizzare le prelibatezze locali e farle conoscere a tutti, anche quelle di nicchia.

Favorire la sostenibilità può dunque diventare anche una proposta per crescere culturalmente conoscendo tradizioni che magari non si pensava minimamente esistessero. E perchè no, favorire la conoscenza di questi aspetti direttamente nelle scuole.

Mangiare sano con prodotti locali ma anche assaggiare con curiosità quanto proviene da un’altra regione contiene un intrinseco valore educativo.

Bene, ma promuovere questo cibo sano e sostenibile, può avere un successo economico?

Si è soliti pensare al mercato della grande distribuzione, alle multinazionali coi loro canali e all’annientamento del piccolo produttore.

Da un lato questa affermazione nutre una buona dose di verità: bisogna però tenere a mente che le nostre Città e i nostri Paesi del Mediterraneo vivono in un contesto che non è quello delle Megalopoli, ma assolutamente più ristretto. Si può ancora fare affidamento sulla qualità locale percepita e valorizzata.

Carmelo Troccoli, Direttore di Campagna Amica ci ha commosso con la storia di un progetto nato nel 2006.

Il progetto aveva come obiettivo la vendita, sotto stand e tendoni dal colore verde, di prodotti tipici locali.

In tale maniera oltre a svolgere una bella pratica di slow food è iniziato il percorso di valorizzazione del ruolo stesso di chi lavora sporcandosi le mani. Di chi sa usare l’intelligenza del polpastrello.

Storicamente la figura del contadino è stata vista con marginalità; dire a uno “contadino”! era quasi un insulto, un segno per demarcare atteggiamenti grotteschi e poco civili.

Anche grazie a Campagna Amica è iniziato un percorso di inversione di tendenza che ancora oggi richiede grandi sforzi: non si trovano più lavoratori nel settore caseario, per esempio. In provincia di Treviso mancano cinquemila panettieri.

Questa carenza di manodopera in realtà però non va pensata in modo riduttivo perché non è la manodopera del passato.