Il rapporto tra cambiamento climatico e conflitti armati: incontro con Silvia Gison

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Cambiamento climatico e conflitti armati sono due dei macro fenomeni più discussi negli ultimi tempi. Esiste, in qualche misura, un reale collegamento tra i due? Perché se correlati perdono notiziabilità? Cosa si può fare, per cercare di limitare i danni?

Ne abbiamo parlato con Silvia Gison, International Humanitarian Advocacy & Policy Officer per Save the Children Italia. Hanno condotto l’incontro, svolto online, le redattrici di Change the Future Simona Vassallo e Sofia Torlontano.

Ci puoi introdurre la correlazione tra cambiamento climatico e conflitti armati e aiutarci a comprenderla?

Questa correlazione nasce dal conflitto in Siria. Tra il 2006 e il 2010 c’è stata un’enorme siccità che ha coinvolto tutto il Sud Ovest asiatico, causando  un forte flusso di popolazione che si è spostata dalle campagne alle città. Una conseguenza è stata l’aumento sostanziale del costo dei generi alimentari. La risposta  politica del Presidente Bashar al-Assad non è stata apprezzata dalla popolazione ed è stata concausa del conflitto in Siria: le tensioni sono sfociate in manifestazioni in piazza represse nel sangue, che hanno dato il via nel 2011 al conflitto che tutt’ora è in corso. 

Il conflitto siriano è l’esempio cardine, ma ce ne sono molti altri. Prendiamo come esempio il caso del Sahel,  dove stiamo vedendo un aumento esponenziale della popolazione, con degli impatti fortissimi sull’approvvigionamento idrico, i prezzi dei beni alimentari e quelli di prima necessità,  e un aumento consequenziale dei gruppi armati non statali. 

Questo è un esempio riguardo il cambiamento climatico che ha come “conseguenza” il conflitto armato; se invece vogliamo portare come esempio la prospettiva invertita potremmo analizzare il caso del Bangladesh, dove a seguito del conflitto in Myanmar la popolazione rohingya ha visto una grossa migrazione di profughi all’interno della zona del Niko Bazar. Per riscaldare le tende e costruire campi d’accoglienza i profughi hanno iniziato ad abbattere alberi, causando frane e inondazioni. Oggi questa popolazione ha bisogno di maggiori aiuti umanitari, e si sta riuscendo a mitigare questo bisogno portando fonti di riscaldamento alternative, ma ancora assistiamo di frequente a incendi. 

Ci sono molti altri contesti in cui si verificano situazioni analoghe ma di cui non sono presenti monitoraggi da parte delle Nazioni Unite. Si stanno verificando in moltissimi contesti shock legati al clima (incendi, alluvioni, tornado) in luoghi dove prima era difficile vedere questi fenomeni climatici, quindi i governi molto spesso non hanno le risorse per poter rispondere in maniera proattiva, univoca e adatta ai bisogni della popolazione in breve tempo, il che porta a un dualismo e a delle modalità di risposta che possono causare maggiori tensioni.

Nel rapporto IPCC 2022 gli scienziati sottolineano che in realtà non c’è una correlazione tra i due fattori, che è vero che alcuni fenomeni dovuti al cambiamento climatico – mancanza di cibo e acqua e migrazioni – contribuiranno all’insicurezza globale, ma la causa principale dei conflitti sono principalmente le decisioni politiche. Quali sono le tue opinioni in merito?

Non smentirei mai il rapporto IPCC, ma la verità è che la comunità scientifica sta ancora studiando le correlazioni: dimostrare la relazione tra questi due fenomeni  non è una cosa immediata. Come vi dicevo, la prima idea di correlazione nasce nel 2006, dal conflitto siriano. Abbiamo pochissimi dati che mettono in relazione i due fenomeni, quindi non si può parlare di relazione diretta causa/effetto, ma l’impatto del cambiamento climatico può essere una delle cause che porta al sommovimento sociale, quindi alla ribellione, all’attacco armato, ad un tentativo di raggiungere risorse energetiche che sono private. 

Chiaramente è la politica a poter mettere in piedi delle misure che possano mitigare il rischio di un conflitto, ma al tempo stesso in un ambiente in cui le crisi climatiche vanno a colpire zone di mondo sempre meno organizzate diventa più difficile mettere in piedi misure che siano effettivamente valide.

Poco fa abbiamo detto che la conseguenza diretta sulla popolazione è la mancanza, o comunque la scarsità, di acqua e generi alimentari. I paesi occidentali quanto si possono considerare sicuri dalle crisi climatiche?

Non possiamo ritenerci al sicuro. Pensiamo al meteo in Italia dell’ultimo periodo: abbiamo assistito a una forte siccità che è andata avanti per mesi; il nord Italia ha avuto tantissima difficoltà con l’approvvigionamento alimentare; il sud Italia ha avuto delle fortissime ondate di calore; in tutto lo Stivale sono avvenute varie inondazioni. Se vogliamo allargare la visione pensiamo agli incendi in Australia oppure all’aumento dei tornado in America. 

Le conseguenze del cambiamento climatico sono tangibili anche in Occidente, solo che abbiamo dei sistemi di risposta più stabili. È importante anche per noi supportare le campagne di sensibilizzazione, andare in piazza per sostenere determinati movimenti, tenere a mente che tutti i fenomeni sono correlati e si influenzano l’un l’altro. Inoltre, dobbiamo imparare a mitigare gli effetti che arrivano a noi.

Nei media c’è una differenza di narrazione dei due fenomeni, cambiamento climatico e conflitti armati: questi ultimi sono narrati con ottica geopolitica e drammatizzazione per un tempo limitato, mentre per i cambiamenti climatici c’è ancora un’ampia fetta dell’opinione pubblica che pensa che non siano qualcosa di così grave oppure li nega del tutto. Quale dovrebbe essere il ruolo dei media nella sensibilizzazione di questi due fenomeni e come si può fare buona informazione narrandoli?

I media in generale tendono a parlare puntando sull’emotività: l’obiettivo principale è che le persone si sentano coinvolte a supportare determinate cause, ed è questo il motivo per cui i conflitti armati sono il cavallo di battaglia di molte testate giornalistiche. I conflitti armati sono facilmente spettacolarizzabili, concetto che nasce nella Seconda Guerra Mondiale in cui i media venivano utilizzati anche per fini di propaganda, per sensibilizzare l’opinione pubblica. Questa dinamica però polarizza le conversazioni, quindi nei conflitti armati molto spesso è in luce solo una parte, solo un punto di vista, perché i media non ascoltano e non vedono il contesto geopolitico nel quale si interviene. 

Rispetto alle crisi climatiche il problema è totalmente invertito: i media non vedono la spettacolarizzazione, non è facile arrivare alla “pancia” della gente quando si parla di crisi climatica. Si è sempre parlato di difficoltà alimentari e dell’accesso all’acqua, ma se si parla di aumento della temperatura la risposta è molto semplificata da parte della persona non informata. Credo che il vantaggio di cercare di tenere insieme conflitti armati e cambiamento climatico, nonostante non sia dimostrabile questa unione così forte, consista nel far sì che, tramite la spettacolarizzazione, sia più facile far passare dei messaggi sull’urgenza, sull’impatto diretto del cambiamento climatico sulla popolazione. Affiancando esperti di tematiche differenti si costruiscono delle risposte che possono essere più adatte al contesto e magari più utili per poter dare visibilità in modo giusto a quello che succede alla popolazione, quello che è l’impatto sul singolo cittadino.

Una grave mancanza che abbiamo analizzato anche con Jacopo Bencini è stato il mancato rispetto nei COP precedenti degli accordi riguardo il finanziamento dei Paesi vulnerabili. Vanessa Nakate, attivista ugandese, ha denunciato un mancato finanziamento precedentemente accordato. Anche durante COP26 questi accordi non hanno trovato particolari riscontri, il che è un po’ un fallimento del “loss and damage”. Come andrebbe fatto tale finanziamento secondo te? Si tratta di un’azione fondamentale per rimediare ai danni causati dai paesi occidentali?

Per quanto mi riguarda sono perfettamente d’accordo con l’idea di “loss and damage”, quindi l’iniziativa di riparare danni e perdite, perché ma è necessario parlare di reali meccanismi di finanziamento che possano sopperire alle perdite, ai danni causati dal cambiamento climatico. 

Alcune richieste sono già state fatte e alcune hanno già ricevuto delle risposte, anche se parzialissime: l’Italia, per esempio, ha già preso una serie di impegni. Il Fondo italiano per il clima ha previsto nel “Bilancio europeo 2021/2027” una serie di finanziamenti per la transizione green, per i panel riguardo interventi di risanamento legati al clima. Queste sono opere micro, per approcciare il macro bisognerebbe discutere di meccanismi di redistribuzione del reddito e di crescita felice, fenomeno presente in tantissime comunità internazionali ma che è molto complesso da far passare perché la popolazione civile non è disposta a sacrificare tantissimo per poter risanare debiti e risanare i danni che abbiamo causato in altri contesti. 

Quando facciamo delle richieste alla politica devono essere delle richieste che siamo disposti a supportare: riprendendo le parole del PDC “dovremmo accettare di non avere l’aria condizionata” oppure di fare altri piccoli sacrifici. Se noi fossimo davvero cittadini del mondo saremmo obbligati moralmente a supportare le popolazioni che hanno subito i danni legati direttamente al cambiamento climatico, ma nel mondo attuale non è così. 

La COP26 ha fatto alcune scelte alcune positive, alcune meno, si è mossa in una certa direzione e ha avviato una serie di conversazioni, in particolare le discussioni parallele, che hanno per esempio previsto l’attivazione della IUS Cooperativum che ha visto varie sottoparti che fino a quel momento non erano state invitate al tavolo. Riguardo la COP27, l’Egitto ha fatto degli annunci riguardo l’importanza di garantire che queste conversazioni vengano portate avanti e si sta facendo portavoce delle domande della comunità africana, quindi si spera che sia un posto dove queste conversazioni vengano riaperte. Ricordiamo che nella COP25 in Cile si era già discusso  del meccanismo di “loss and damage” e già si prevedeva la creazione di un panel di esperti che venissero consultati per i paesi che erano più colpiti dal cambiamento climatico. Nella COP26 ciò non è stato discusso in maniera forte, quindi speriamo che nella COP27 si riprenda questa iniziativa, che si finanzi, che si supporti e si renda operativa.

Restando sempre in tema di COP27 e 28, considerando che la PRE COP26 qui in Italia e la PRE COP26 a Glasgow sono state teatro di molte manifestazioni da parte di giovani, pensi che la stessa cosa possa ripetersi nelle COP27 e 28, prendendo in considerazione dove si svolgeranno (l’Egitto e gli Emirati Arabi)? Pensi che questo possa generare dei conflitti interni da cui possano partire conflitti peggiori?

L’Egitto storicamente ha avuto delle grosse manifestazioni popolari, ma prevalentemente in grandi città. La piazza del Cairo è stata una delle piazze principali delle primavere arabe, quindi in alcuni contesti l’Egitto può essere una fucina di idee, può essere un posto nel quale si attivano una serie di movimenti popolari, ma non credo che la COP per il contesto egiziano, visto dove si terrà, vedrà questi grandi sommovimenti: Sharm el-Sheikh è una città turistica abbastanza controllabile, non ha una popolazione gigantesca e i controlli internazionali per l’arrivo in Egitto sono molto più forti rispetto a quelli fatti a Glasgow e Italia.

Quello che dobbiamo prevedere nelle prossime COP non è tanto l’attivazione in piazza, la partecipazione attiva dei movimenti culturali, ma dobbiamo sfruttare le COP come momenti di visibilità e partecipazione a livello internazionale in altre modalità. Se parliamo degli Emirati Arabi il contesto è totalmente diverso: è un paese che anche durante le primavere arabe non è stato toccato. Tutti i Paesi del Golfo durante le primavere arabe al massimo sono stati di supporto a contesti terzi, quindi nella loro area non hanno mai visto sommovimenti popolari, perché sono Paesi con un forte controllo territoriale, molto piccoli, con facilità di accesso alle risorse per la popolazione civile. 

Il mandato della COP28 che hanno annunciato gli Emirati Arabi è legato allo sfruttamento tecnologico, alle soluzioni tecnologiche legate al cambiamento climatico, alle fonti rinnovabili, quindi la chiave di lettura è differente rispetto a quella che è stata portata fino ad oggi. Nel contesto degli Emirati è ancora più forte il fatto di dover portare avanti misure differenti d’interazione. Teniamo presente che tutte le COP sono un fenomeno lento che ha visto una serie di passaggi importanti, una serie di interventi importanti, ma che ha visto anche delle contrazioni, quindi è normale che sia un fenomeno un po’ oscillatorio. Rispetto a come si partecipa alle COP l’importante da parte nostra è che si rimanga attivi e attenti e si continui a chiedere, perché l’unico momento in cui i media si sono interessati al cambiamento climatico è stato quando tutti i ragazzi sono scesi in piazza a chiedere dei cambiamenti.

Presentaci la tua opinione riguardo le ultime notizie secondo cui l’Italia si approvvigionerà dall’Algeria causa conflitto Russia-Ucraina, nello specifico su come il cambiamento climatico andrà a incidere sul nostro approvvigionamento e soprattutto sui paesi occidentali, che hanno uno stile di vita per cui consumano due pianeti e mezzo ogni anno, e se si andranno a esasperare situazioni già esistenti a livello di conflitti e accordi tra gli Stati.

L’approvvigionamento energetico e la corsa alle risorse sono da sempre cause di conflitti armati. Il conflitto ucraino-russo sta avendo un impatto diretto e facilmente visibile e quantificabile. La conseguenza può essere di due tipi, per noi: nel breve periodo non abbiamo modo di fare le cose diversamente, muoversi verso l’Algeria e verso altri paesi per la richiesta di gas non è una cosa che si poteva evitare perché ormai da anni si sta parlando di differenziazione delle fonti di approvvigionamento, che storicamente sono questioni molto difficili. Mi aspetto che ci siano, e se non sbaglio ci sono già stati, dei dialoghi con Cipro, Libia e Turchia perché sono altre zone da cui passano i gasdotti e sono direttamente collegate all’Italia. Il resto delle importazioni viene da gas liquefatto, ma sono importazioni molto complicate e molto costose per cui servono degli impianti di smistamento, di stoccaggio e di gassificazione, che non sono così comuni e sono prevalentemente in Spagna. 

La complessità di distribuzione può portarci ad andare in un’altra direzione che è quella delle energie rinnovabili:  tutto questo non viene discusso dai media perché non è a breve periodo e non è notiziabile, ma è discusso sia a livello italiano che europeo e si stanno iniziando a mettere in piedi tutta una serie di manovre per cercare di ridurre la dipendenza da fonti non rinnovabili e ridurre le emissioni. Il “Green Deal” prevede già una riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 e dell’arrivare a 0 entro il 2050, motivo per cui si stanno mettendo in piedi tutta una serie di manovre. Ricordiamo che i posti da cui proviene il combustibile fossile sono normalmente proni a delle tensioni sociali, perché se l’approvvigionamento energetico non è democratico è più facile che si vadano ad accentrare sia il modello economico che le decisioni politiche, quindi diventa molto più complesso coinvolgere la popolazione e rendere effettivo il modello democratico nel momento in cui si fanno investimenti rinnovabili, cosa che è necessario l’Europa faccia.