La resistenza del porto di Genova alle guerre di oggi

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Conosciamo quella che siamo abituati a definire Guerra “Mondiale” guardando i film d’azione o nei libri di scuola ma sempre e comunque da lontano, senza ansia o immedesimazione: concepiamo la guerra come un evento sì catastrofico ma pur sempre distante, concluso, terminato, finito. Come se oggi, nel 2020, nel mondo regnasse la pace. 

Ogni tanto qualche telegiornale trasmette alcune immagini dei conflitti attualmente in corso nel resto del mondo e per qualche minuto finge di ricordarci che la Guerra, in realtà, non è mai finita. E per qualche minuto ci dispiace, dopotutto, per le persone che vivono lì, perché la guerra è una cosa spiacevole. Poi quei minuti passano e noi smettiamo di pensarci. 

Le bombe in Yemen invece non smettono di esplodere. Chi vive la guerra non conosce distrazioni. È una guerra, quella contemporanea ed extraeuropea, che non ci sfiora, non ci colpisce, non ci distrugge. È quasi una guerra-non guerra, che si svolge in un paese lontano, tra persone lontane; insomma qualcosa che non ha assolutamente nulla a che fare con la nostra vita di tutti i giorni né qualcosa per cui abbiamo motivo di sentirci responsabili. 

E se invece ci riguardasse? E se potessimo fare qualcosa per fermarla? E se non fosse poi così lontana da noi? Ci sentiremmo ancora così innocenti?

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Abbiamo scelto di lasciare la parola a José, uno degli operai portuali genovesi protagonisti delle proteste che sono state organizzate in questi giorni contro il transito delle navi che trasportano armi. Perché la guerra, ricorda José, inizia qui. Inizia quando smettiamo di sentirci colpevoli.

Puoi spiegarci i motivi per cui avete deciso di fare lo sciopero?

Tutto parte circa quattro anni fa, quando in porto ci accorgemmo che c’era un grosso traffico di fuoristrada destinati diciamo ai ‘ribelli’ in Medio Oriente, quindi alle rivoluzioni colorate – tipo quella in Libia – eccetera. Ci accorgemmo che questi fuoristrada erano destinati lì perché per fare l’imbarco di questi fuoristrada applichiamo degli adesivi sulle fiancate, sai, come quando prendi il traghetto per la Sardegna che ti mettono quell’adesivo con scritto ‘Olbia’ – che è il porto di destinazione; noi mettiamo questi adesivi per far capire all’equipaggio dove va imbarcata la merce. Se non che un giorno, guardando questi video su YouTube dei vari combattimenti nel Medio Oriente vedemmo uno di questi adesivi applicati ai fuoristrada dove i guerriglieri del posto avevano montato delle mitragliatrici piuttosto che dei bazooka anticarro, comunque armamenti vari.
A quel punto ovviamente ci siamo posti un po’ delle domande, perché diciamo ‘Belin, passano da qua come se fossero dei fuoristrada semplici, bianchi, poi arrivano lì e prestano servizio dove c’è la guerra’. Quindi ci accorgemmo che esisteva un grande flusso di armi nel porto di Genova

Lo avete scoperto proprio così per caso, senza che nessuno vi dicesse niente, guardando dei video su YouTube?

Ma proprio per caso, sì sì, perché sai quand’era scoppiata la guerra in Libia c’era una grandissima affluenza di video su YouTube dove vedevi questi e quelli lì sparare a destra e a manca; ma poi saranno stati anche in TV, magari nei report serali. No, c’era un po’ di bombardamento mediatico rispetto a quello che succedeva alla Libia, Gheddafi… Si dava molto risalto a quello che accadeva lì, quindi ci accorgemmo di questa roba grazie ai video.
Tutto questo fino all’anno scorso quando iniziamo a muoverci grazie alla notizia data dai colleghi di Le Havre, porto nel nord della Francia, dove si rifiutarono di imbarcare un bastimento di armi. In quel momento abbiamo detto ‘Belin, c’è un’affluenza un po’ maggiore del normale di armi anche nei porti del nord Europa’. E venimmo a sapere, sempre tramite questi colleghi, che a Genova stava per transitare questo carico di generatori di corrente della Technelche è una ditta romana specializzata in questo genere di cosee che questi generatori praticamente sarebbero andati ad alimentare i sistemi di puntamento dei droni di combattimento delle artiglierie.
In quel momento ci attivammo, perché volevamo saperne di più, soprattutto perché sapevamo che era scoppiata la guerra in Yemen da qualche anno; ed è una delle guerre più sanguinose in termini di civili morti e bambini morti. Ci attivammo chiedendo una serie di appuntamenti: col Prefetto, con le autorità portuali, con i sindacati e con tutte le associazioni pacifiste e antimilitariste, Emergency, Medici Senza Frontiere, CGIL.
Scoprimmo che questo carico doveva essere caricato sulla Bahri Yanbu (che è quella che poi è tornata a Genova anche ultimamente) diretta in Arabia Saudita; e scoprimmo che raccontavano anche delle bugie rispetto a quello che era questo carico: praticamente, con la questione che una fabbrica che costruisce generatori di corrente ha l’obbligo di costruirli col double use, cioè sia per uso civile che per uso militare. Con questa ‘scusa’ del double-use ci venne detto che quel carico lì era destinato alla guardia civile dell’Arabia Saudita, paragonandocela alla nostra protezione civile (quindi non armata e via dicendo).
Ci incuriosì questa cosa: dicevamo ‘Com’è possibile che dei generatori che servono specificamente a fare dei sistemi di puntamento, droni e artiglieria, vengano usati per, che ne so, ausilio in caso di calamità naturali (terremoti, alluvioni)?’. 
Nel mentre questi generatori arrivarono nel porto di Genova e un compagno che lavora in banchina fotografò l’etichetta – sempre perché per i patti e le leggi internazionali si è obbligati a mettere dei numeri di serie sugli armamenti – e scoprimmo proprio quello che avevamo sospettato fin dall’inizio e cioè che andava in un teatro di guerra. Scoprimmo anche che la guardia civile dell’Arabia Saudita non è come la nostra protezione civile ma è proprio un esercito regolare, una cosa abbastanza seria.

Quindi ci attivammo per cercare di dichiarare sciopero sulla banchina: quella volta poi essendo periodo di elezioni europee diversi partiti ci diedero visibilità, probabilmente per ottenere maggiori consensi facendo vedere quanta sinistra ci fosse nel territorio genovese. In questo modo riuscimmo ad organizzare diversi eventi pubblici dove dicevamo alla gente e anche alle associazioni quale fosse il problema anche legato ai traffici di armi nel porto. Dichiarammo quindi sciopero il giorno dell’attracco della nave sulla banchina, riuscendo effettivamente a bloccare quel bastimento lì sulla Bahri, e facendogli caricare solo merce civile.

Quindi queste navi caricano le armi a Genova? O le hanno già? 

Allora volevo proprio arrivare qua. Scoprimmo che questa compagnia da quattro anni al suo interno partendo dal Nord dell’America e poi passando per il Nord Europeo passando anche per l’Italia faceva carico di armamenti destinati a quei conflitti diciamo sporchi. Questa cosa la abbiamo scoperta adesso, l’anno scorso. Cioè mentre sapevamo operasse per i teatri di guerra che chiamano operazioni di pace, dove vanno a dare una mano nei conflitti ‘interni’, scopriamo che è parte anche di quei conflitti che non mantengono i patti internazionali riguardo i conflitti.

L’Italia ha delle regole, stando alla Costituzione, che dicono palesemente che sul suolo italiano è vietato il transito di armi che usano come soluzione finale delle controversie l’atto bellico; quindi teoricamente in Italia si vieta il transito alle armi. Questa nave, carica di armi, transita da Genova violando la legge anche nazionale, oltre che internazionale. All’interno ci sono proprio elicotteri, carri armati, fuoristrada blindati per la fanteria, carichi di missili, ce n’è per tutti i gusti: esplosivi, mitragliatrici… C’è di tutto

E come avete saputo che le navi trasportavano queste armi? 

Allora, scoprimmo che nei bastimenti che transitano nel porto di Genova ci fossero le armi perché proprio come portuali saliamo a bordo delle navi e le vedemmo. Abbiamo fotografato, abbiamo documentato, i compagni di Bilbao ci hanno mandato una serie di video di come la guardia civìl spagnola scortasse determinati tipi di camion che poi sarebbero serviti per imbarcarli sulla Bahri che poi avrebbe fatto tappa qua. Abbiamo una serie di documenti e prove che attestano questo. Noi abbiamo persino troppe prove. 

Al porto di Genova hanno fermato una nave per il trasporto di armi, la Bana. Non è la stessa per la quale stavate protestando voi? 

No, allora, quella per cui stavamo protestando noi è la Bahri Yanbu. Anche questo è molto curioso: come si abbia una doppia logica per lo stesso problema…
La Bana è una nave libanese, presta servizio alla Turchia e fornisce armi alla Libia. Parte dalla Turchia, scortata dalla marina turca e con al suo interno (della nave Bana) servizi segreti ed esercito turco; arriva alle coste libiche dove scarica diversi mezzi militari (tra cui mitragliatrici, bombe, carri armati e chi più ne ha più ne metta). Dopodiché, vuota, dal porto libico fa rotta verso Genova spegnendo il GPS. Questa cosa non si può fare, e questa nave infatti viene chiamata nave-fantasma perché quando finisce il traffico spegne il GPS e fa rotta verso un porto a fare rifornimenti. Quindi questa nave fa rotta verso Genova con il GPS spento, se non che la marina francese intercetta la Bana dalla Corsica e dice: ‘Guardate, c’è questa nave battente bandiera libanese che sta venendo verso le vostre coste. Pensiamo che abbia fatto traffico di armi, quando arriva in porto fermatela’. Quindi quando attracca a Genova sale la polizia di Stato con la Finanza e arrestano il comandante della nave per traffico illecito di armi. 

Tutto corretto, ma quindi se una nave come la Bahri, che ha accordi internazionali con l’America – e quindi di riflesso, come dire, amica dei popoli occidentali – allora va bene. Questa nave carica nel Nord America, negli Stati Uniti, Nord Europa, Sud Europa, e poi va in quei conflitti sporchi: ad esempio in India, dove c’è il conflitto per il Kashmir che va avanti da più di settant’anni. Abbiamo delle foto dove ci sono questi chinook – che sono elicotteri da trasporto truppe americani – con scritto “Indian Army Force” su un fianco; quindi proprio con la certezza che andranno in quei posti. Tutto questo in riferimento alla Bahri Yanbu. Poi abbiamo tutto il bastimento dei missili che vanno in Arabia Saudita, altro teatro sporco di conflitti internazionali. 

Quante di queste navi passano per Genova, in un anno? 

Le navi militari come le concepiamo noi, tipo la Bahri, sono sei e fanno un attracco ogni venti giorni, circa. Venti, trenta giorni 

Beh, sono abbastanza…

Sì, ma consideriamo che il porto di Genova è in assoluto tra i più importanti in Italia e nel Mediterraneo. Sei navi all’anno, nel giro di venti o trenta giorni, sono poche. Non hanno tutta questa prosperità rispetto a quello che è il traffico di merci. Rispetto al traffico di armi invece sì perché parliamo del prodotto che al mondo fa guadagnare di più. Parliamo di un giro di miliardi di euro. 

Un’ultima domanda: mi hai detto che sono passati quattro anni da quando avete scoperto che passavano armi per Genova, la decisione di attivarvi contro questo traffico però è più recente. Cos’è che vi ha spinto ad agire?

Diciamo che ci siamo attivati nel vero senso della parola quando abbiamo iniziato a tirare fuori anche il problema etico-morale. Noi non vogliamo essere parte nemmeno minimamente, in nessun modo, dell’ingranaggio della guerra. Non vogliamo sporcare le nostre mani di sangue col nostro lavoro, perché ogni pezzettino di quella catena lì porta all’atto finale della guerra. Una cosa che noi diciamo è: “La Guerra comincia da qui.”, no? Quello che vediamo nei teatri della guerra è l’atto finale della costruzione, della produzione, della politica di un atto di guerra. Quando tu vedi una bomba esplodere, quella è la parte ultima di un processo di cui anche noi siamo parte. Noi non vogliamo essere parte di quella produzione lì. Nelle scuole c’è lo studio della progettazione delle armi VVV, parliamo di oltre cento università italiane sovvenzionate dal Pentagono per trovare nuovi sistemi di armamenti, nuovi software, lo studio della geopolitica, lo studio di migliaia di cose legate alle armi. Poi c’è la produzione, quindi tutte le fabbriche italiane al cui interno ci sono operai che producono queste armi. E poi c’è la logistica, quindi ci siamo noi: che le carichiamo da un luogo all’altro, trasportiamo, le mettiamo in sicurezza. Poi ci sono i test di queste armi: parliamo dei poligoni di tiro, delle basi militari e via dicendo. E poi, “infine”, c’è la guerra. La guerra che consuma tutto quello che viene prodotto nella catena filiale. Ecco noi, con questa logica, non vogliamo farne parte. Io vado a lavorare perché ci sia la prosperità in questo caso dei popoli. Io se devo manovrare merci varie, che sia dal cibo ai medicinali a – che ne so – i vestiti, le cose di uso civile, non ho problemi di nessun genere. Ma se devo muovere con le mie mani, con la mia forza lavoro, carichi che poi vanno ad uccidere un popolo civile, indifeso e inerme, non mi va. Perché io vado a lavorare, e una coscienza ce l’ho. Quindi non vogliamo minimamente essere parte di questo ingranaggio qua. 

C’è un granello di sabbia che vuole distruggere l’ingranaggio. La Resistenza genovese alle guerre di oggi. Noi vogliamo costruire una mentalità morale ed etica contro la guerra, per questo abbiamo deciso di dire basta. Ogni volta che passerà qualche prodotto militare noi faremo qualsiasi cosa per interrompere questo processo.