Come si racconta un quartiere fragile? Davide Cerullo ci spiega Scampia

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Davide Cerullo (che abbiamo già intervistato qui) è un fotografo e scrittore che ha vissuto e raccontato Scampia. Abbiamo letto il suo ultimo libro, In direzione ostinata e contraria – l’altra faccia di Scampia (Edizioni Tigulliana) e abbiamo voluto approfondire con lui una riflessione centrale del suo libro, l’importanza che ha la scelta riguardo la prospettiva da adottare: cosa voglio presentare? Quando si racconta un quartiere “difficile”. La riflessione vuole porre degli interrogativi: «Quali conseguenze ha una scelta di narrazione piuttosto che un’altra?», «Come si racconta un quartiere per permettergli di esistere?».

 “[…] … non si cerca di stare altrove se dove siamo ci appartiene. Imparare ad abitare le Vele è un’arte complessa, graduale, non da tutti … chi le distrugge non c’è mai stato, oppure non sa ammettere che qualcuno ci sia riuscito”.

“Sulle Vele si dice tanto, e troppe cose uguali e quando si dicono sempre le stesse, comode, invariabili cose, si sta semplificando la realtà”.

“Avevo iniziato da tempo a gridare che le Vele non è solo la fiction Gomorra. Che ci sono persone sofferenti, certo, c’è illegalità, certo, c’è la camorra, ma che anche il pregiudizio, l’immobilismo, l’abbandono dello Stato che generano tutto questo”.

“Non è una domanda oziosa come potrebbe sembrare: qual è il colore di Scampia? Qualcuno non ha il minimo dubbio in proposito: è il nero. Scampia è il quartiere del male assoluto e inestirpabile, il concentrato di tutti i mali di Napoli e dintorni, è il quartiere da cui stare alla larga, l’impero incontrastato della Camorra, l’epicentro del più grande mercato di droga che esista al mondo. Questa immagine “in nero” di Scampia viene presentata da coloro che parlano (o meglio, s-parlano) e giudicano per “sentito dire”. Ma tenete presente che lì, ad esempio, è costretta a vivere Lucia, lasciata dal marito con tre figli da crescere e senza lavoro, una donna nei confronti della quale tutti sono stati generosi solo con promesse mai mantenute neppure in piccola parte. Lì abita Salvatore, che sta ancora aspettando la famosa telefonata per ottenere un lavoro sicuro ma che di sicuro ha solo il fatto che non arriverà mai. Io mi chiamo Davide e sono figlio di Scampia: non mi vergognerò mai di essere nato in questo posto, e posso dire che c’è anche un altro colore con cui si dovrebbe, per un elementare senso di onestà, dipingere nostro malfamato quartiere: il verde. Che, come tutti dovrebbero sapere, è il colore della speranza”.

“Non c’è niente di buono nell’essere una vittima, non c’è nessuna saggezza nell’essere una vittima. È una sfortuna, è qualcosa da evitare, è una condizione da cui uscire, come è ovvio, il prima possibile. […] Le vittime sono le prime persone a cui serve una critica della vittima. Serve che lo spazio del discorso sulla vittima torni da uno “spazio sacro” allo spazio profano, laddove profano vuol dire che si può toccare, che può essere discusso. È nell’interesse stesso delle vittime in qualche modo tornare nei cerchi della ragione, essere sottratte al “cerchio del discorso sacro” (quello su cui non si può dir nulla, si può soltanto obbedire e si possono soltanto ripetere le formule). Questo mi sembra il primo passo anche per le vittime per cominciare a vedere, a ragionare come non esserlo più – che è in fondo – io credo – la cosa più desiderabile che noi abbiamo”.

In che modo la narrazione di Scampia che emerge dal suo libro è diversa da quella mainstream?

Si sente, leggero, lo stanco strascico di un fastidio nelle parole di Davide. Un fastidio che è leggero ma accorto, stanco di quanto malsana sia quella narrazione di “denuncia” di Scampia che – seppur ben intenzionata – Scampia non l’ha aiutata mai. È un fastidio stanco: stanco di essere compatito senza essere aiutato, stanco della commiserazione prodotta da una narrazione “tutta nera” che non ha mai apportato alcun reale beneficio a chi – cito le sue parole – pure silenziosamente esiste. Stanco della stanchezza di chi ha imparato a pesare con attenzione gli effetti di una parola, di un’”etichetta”, di un passaparola, di un pregiudizio. Ed è leggero, dicevo, ma è fastidio, fastidio perché quella meravigliosa resistenza silenziosa non ha né spazio né respiro se non viene raccontata, e senza spazio né respiro, purtroppo, si rischia di soffocare. Ma ecco cosa fa Davide: Davide racconta quel “pure silenziosamente” che non solamente esiste, ma è Scampia, e parlando di Scampia racconta la periferia, il senso di quartiere, di casa, di spazio, di abitare, e poi parla di fragilità, di violenza, di perdono, di famiglia, di radici, di speranze tradite, di favole e di libri.

Ed ecco che in tutto questo il fastidio, nelle parole di Davide, rimane appunto soltanto uno strascico. Le sue sono le parole di chi ha avuto la forza di resistere, che è molto più di lottare: Davide di Scampia racconta il coraggio, la forza, il silenzio, l’ordinario – il meraviglioso, straordinario, eccezionale ordinario! -, racconta le persone, i bambini, le madri e i figli, i figli e i padri, le famiglie, gli abbracci negati e quelli regalati, le carezze, le violenze silenziose e quelle assordanti. Di Scampia Davide racconta la luce, i colori, la forza: e tutto questo è Scampia.

È una narrazione importante perché è assolutamente nuova e quasi rivoluzionaria: raccontare Scampia come un luogo “verde”significa raccontare un luogo vivo, un posto in cui voler vivere e voler restare, un posto di amicizia e di forza – molto lontano da quell’eccesso di violenza a cui siamo abituati ad associarlo. È bellissimo raccontarne i suoi colori. È bellissimo e necessario vederli, perché se riusciamo a vederne i colori possiamo davvero proteggerli e permettere loro di crescere. E a Scampia di splendere.