La scuola, l’alternanza scuola-lavoro … e la sicurezza sul lavoro

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La domanda è: “Dov’è la sicurezza sul lavoro?”
di Ken Anzai

Venerdì pomeriggio è morto Lorenzo Parelli, ragazzo di 18 anni, a causa di una trave di 150 kg caduta sulla sua testa, in una fabbrica.

Questa è la notizia, ma negli ultimi giorni, si stanno leggendo alcune cose corrette, altre meno corrette e poco opinabili, altre ancora che sfociano direttamente su una vecchia ma costante questione politica. 

Lorenzo Parelli ha lavorato in una fabbrica vicino Udine, non come dipendente ma come apprendistato. 

Lorenzo Parelli non era un ragazzo che frequenta un liceo qualsiasi, ma un Centro di Formazione Professionale. 

Non stiamo propriamente parlando della vecchia Alternanza Scuola Lavoro, PTCO, dove “non si fa niente, al massimo alcune fotocopie” (poi ci torneremo), bensì delle sessioni intense per imparare un lavoro che il ragazzo avrebbe fatto tutti i giorni. O almeno, fino a quando la fabbrica sarebbe stata in piedi. 

Questa notizia è diventata materiale di dibattito pubblico per una serie di ragioni: 

  • “L’alternanza scuola lavoro, PTCO, non deve esistere. Gli studenti devono studiare.”
  • “Non è possibile che gli studenti debbano essere sfruttati, schiavi legalizzati e oltretutto morire.”
  • “Dov’è la sicurezza sul lavoro?”

Devo dire che all’inizio ho letto la notizia di sfuggita e devo ammettere che pensavo fosse una “classica morte sul lavoro”. Ormai va così: il costante ciclo di informazioni sempre uguali, sempre riguardanti qualcuno che muore in un impianto dove ci sono attrezzature che pesano tonnellate, a volte anche in allegato dei video che fanno ribrezzo. Purtroppo, non mi colpiscono più di tanto. 

Ciò che mi aspetto poi, di solito, sono le proteste in strada dei sindacati, alcune parole rassicuranti qua e là e poi un niente di fatto. Poi di nuovo, una nuova morte sul lavoro, titolo sui giornali, eccetera eccetera eccetera. 

Passando i tempi morti su Twitter e Instagram, però, devo dire che c’era qualcosa di diverso, c’era qualcosa che non mi aveva convinto pienamente. 

Partiamo da un video che ha girato parecchio su cui sono d’accordo parzialmente, di Alessandro Barbero. 

Ritengo che questo sia un discorso giusto in un mondo ideale, dove il percorso fino alla terza media è tutto rosa e fiori, dei giovani adolescenti decidono ad un’età prematura cosa vogliono fare nella vita e poi per cinque anni continuano a studiare per inseguire il loro sogno. 

Nel mondo reale, sporco e faticoso, però, ci sono certe cose da tenere in conto. 

Siamo tutti diversi, c’è chi ha passato cinque anni di formazione fantastica alle elementari, chi meno. 

C’è chi ha passato tre anni di scuola media con serenità e chi è stato invece vittima di bullismo. E poi ci sono le difficoltà familiari, economiche e, per l’appunto, sociali. 

Tutti elementi che non portano una buona immagine all’istituzione scuola. Ci sono persone che non hanno più voglia di studiare duramente il latino e il greco in un ambiente dove vieni bullizzato, quindi ripieghi magari su qualcosa di più “facile”. Tradotto, più pratico.

La famiglia ha bisogno di soldi, quindi magari invece di prendersi il diploma e poi andare in un’università a caso e investire altri dieci anni di studio prima di portare il pane a casa, forse è il caso di andare in una scuola di formazione professionale o in un istituto tecnico e cominciare a lavorare il prima possibile.  

E diciamo che la ragione per cui sto scrivendo questo articolo, risiede in questo thread.

Ho frequentato un liceo scientifico e l’ho fatto nella maniera più tradizionale possibile, ma ricordo che 7 anni fa chi aveva scelto di voler fare qualcosa di diverso dal liceo, non gli si prospettava chissà quale futuro. 

Insomma, un muratore non avrebbe mai guadagnato quanto un avvocato o un medico.

Però è anche vero che per costruire una casa non servono dieci avvocati e un muratore, anzi.

Il mercato del lavoro ci dice che c’è tanta disoccupazione giovanile perché tanti scelgono di non scegliere, prolungando gli anni di studio per rientrare in un élite, quando magari la loro passione è un lavoro che viene poco rispettato, ma potrebbero cominciare sin dalla maggiore età. 

Studiare è importante è vero, la cultura è fondamentale ma prima di tutto è fondamentale fare esperienze per capire cosa piace e cosa no. 

PTCO è l’acronimo che sta per Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento. 

Io da questo programma ho capito che ci sono certe cose che non avrei mai voluto fare nella mia vita. 

Poi, ho letto persone che si lamentavano che durante queste ore facevano “fotocopie, fatture e altri lavoretti noiosi”.

Specialmente per me che ho fatto il liceo scientifico, dove ho studiato tantissime nozioni di chimica e filosofia che, spoiler, a distanza di un anno e mezzo buona parte delle cose non ricordo più, invidio tantissimo per non aver fatto quei “lavoretti noiosi”. 

Siccome per la scuola 30 ore settimanali sono poche, quelle ore di PTCO sarebbero state utili non solo per insegnarci “come scrivere un curriculum” dalla quale ci sono ormai tantissimi modelli belli e fantasiosi.

Grazie Google

Piuttosto, sarebbe stato molto più utile sapere come si scrivono dei preventivi e delle fatture, come funzionano e si pagano le meravigliose tasse, come (non)funzionano le pensioni e contributi vari. 

Per chi si lamenta di aver fatto soltanto fotocopie, penso che con un minimo di curiosità si sarebbe potuto imparare dell’altro, dato che teoricamente si è per la prima volta in un ambiente di lavoro.

Per finire, questo enorme dibattito dovrebbe ricadere soltanto su una domanda: “Dov’è la sicurezza sul lavoro?”.

Ascoltiamo gli studenti, non parliamo per loro
di Matteo Scannavini

Il primo articolo che ho pubblicato nero su bianco parlava di alternanza scuola-lavoro. Avevo sedici anni ed esordivo sul giornalino del mio liceo titolando “Alternanza” scuola-lavoro: puoi farlo meglio. Era un pezzo polemico, velenoso, pieno di stoccate contro quella riforma a cui io e i miei compagni, come ragazzi del ‘99, facevamo da cavie per la prima volta. Allora ero scettico verso un progetto che impegnava 200 ore in una serie di attività che non riguardavano né il nostro percorso di studi né il mondo del lavoro. A distanza di 7 anni, non mi rivedo in molte delle frasi che scrissi, tanto nello stile quanto nei contenuti. Alcune di quelle attività si sono rilevate suggestive, altre si sono confermate inutili. Nel complesso, riconosco ancora diversi limiti all’alternanza, ma più alle sue applicazioni che ai principi su cui si basa.

Se ne torno a scrivere ora è perché, come tanti, ho letto del caso di Lorenzo Parelli. “Morto di alternanza scuola-lavoro” secondo quanto riportato da molti media. Scavando tra qualche giornale che si è preoccupato di lavorare con maggior deontologia professionale, ho scoperto che non si trattava nemmeno di alternanza scuola-lavoro (o PCTO, Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, come è chiamata ora). Il ragazzo era iscritto a un IeFP, un corso di istruzione e formazione professionale che prevedeva un’attività duale, in parte in classe e parte in azienda. Lo stage in cui ha perso la vita non rientrava quindi percorsi previsti per i trienni delle scuole superiori dalla discussa legge 107 del 2015, che pure negli anni ha talvolta prodotto vittime.

Ad ogni modo, l’appello della madre a non strumentalizzare la tragedia è stato come prevedibile ignorato.

Il rumore abbonda e Lorenzo è ora il volto della lotte contro il modello di “scuola-azienda” e l’alternanza scuola-lavoro in tutte le sue forme. Qualcuno ha però messo l’accento anche sul reale problema alla base della vicenda, la sicurezza sul lavoro. Resta sempre lì, sullo sfondo, quella cifra anonima delle tre-quattro morti al giorno, finché ogni tanto emerge una tragedia più “notiziabile”, come quello di Luana d’Orazio o di Lorenzo.

Nell’azienda di Lorenzo le norme di sicurezza erano conosciute e rispettate? Il ragazzo stava svolgendo un incarico idoneo al suo ruolo? Chi era responsabile per lui in quel momento? Sono queste le domande a cui dovranno rispondere le indagini, stabilendo le eventuali condanne. Così come serviranno risposte dalle istituzioni al problema generale della sicurezza, passando tanto dai controlli alle imprese quanto dalla formazione di lavoratori che siano consapevoli dei propri diritti e di come farli rispettare.

Ma ormai questo fatto di cronaca è stato prestato a un’altra causa. Se dobbiamo quindi parlare di quanto sia giusto che le scuole prevedano percorsi di avvicinamento al mondo professionale, confrontiamoci prima con la realtà del nostro paese. In Italia esiste un problema di NEET (Not in Education, Employement or Training), ovvero le persone tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnate in attività di studio, lavoro o formazione. Eurostat stima che con la pandemia siano il 23.3% dei giovani, significa quasi uno su quattro.

Alla luce di questo dato, ha ancora senso imbastire una guerra ideologica contro tutte le iniziative che provano a connettere i giovani al mondo professionale già durante la formazione scolastica? Il sistema duale di alternanza scuola-lavoro come declinato ora non è certo esente da critiche, anzi. Ma più che buttarlo via e basta, sarebbe utile ragionare su come si svolgono le attività e intervenire per contrastare i rischi di sfruttamento e sicurezza che presentano. E per farlo un buon punto di partenza sarebbe dare voce agli studenti che le vivono, sia quelli in piazza sia quelli soddisfatti dei propri PCTO.

Sotto la parola “alternanza” convivono tantissime esperienze diverse: stage passati tra fotocopiatrici e macchina del caffè; progetti e percorsi educativi della persona, anche se non strettamente connessi al mondo professionale; aziende che formano e avvicinano i ragazzi a un mestiere e aziende che li sfruttano come manodopera gratuita. Come sempre, la realtà è più complessa degli schemi con cui proviamo a raccontarla e fa comodo semplificare, soprattutto quando si danno risposte emotive. Anche se in buona fede.

Tutta colpa della scuola?
di Simona Vassallo

La morte di Lorenzo Parelli ha aperto vecchie ferite e permesso a certi di lanciare le solite, vecchie accuse: non importa che sia morto un giovane ragazzo, non importa nemmeno che la famiglia abbia chiesto di evitare speculazioni sulla morte del figlio, non importa nemmeno che siano passati appena due giorni e le indagini debbano ancora iniziare perché per molti la colpa è tutta da attribuire alla scuola, all’alternanza scuola lavoro.
Sembra che improvvisamente tutti si siano dimenticati dei numeri di morti sul lavoro quando fino a poche settimane fa si parlava proprio di questo.
Adesso il fenomeno non esiste più?
Prima di parlare, di scrivere, di protestare dovremmo attendere le indagini della polizia circa le dinamiche dell’incidente: se e quando si potrà stabilire che la morte non è dovuta ad inadempienze da parte del gestore della fabbrica allora si potrà parlare di alternanza scuola lavoro e dei suoi problemi.
Sempre che qualcuno abbia poi ancora voglia di farlo.

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