A proposito di The Social Dilemma

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di Ygnazia Cigna e Federico Monni

L’umanità è entrata in questo nuovo secolo in pompa magna, con gioia ed entusiasmo, spinta dall’inesauribile voglia di tecnologie, scienze e progresso.
In venti anni si sono fatti passi che nemmeno Neil Armstrong si sarebbe sentito in grado di chiamare “piccoli”.
Siamo però di fronte ad una depersonalizzazione, desoggettivizzazione del reale?
Oppure siamo di fronte all’ascesa infermabile e così immensamente espansiva del progresso?
Il docufilm The Social Dilemma ci mette di fronte a questi antichi ed eterni interrogativi.

“Abbiamo creato un’intera generazione globale di persone cresciute in un contesto in cui il significato stesso della parola comunicazione è connesso a quello di manipolazione”: così Jaron Lanier, informatico e pioniere della realtà virtuale, descrive il ruolo dei giganti del tech nella società, la quale, a suo avviso, è a rischio della propria sopravvivenza. Parole molto forti, senza mezzi termini, che abbracciano un linguaggio oramai sorpassato dagli addetti ai lavori.

Qui si configura il punto debole di questo docufilm: affronta questioni fondamentali, necessarie, ma con gli strumenti sbagliati. Lo fa su un terreno scivoloso che è quello della comunicazione digitale, dei social network e della profilazione dei dati cadendo spesso in semplificazioni.
Si parla di manipolazione, concetto che tende a tornare ciclicamente al centro dell’attenzione in contesti sociopolitici di tensione, scetticismo e timore.

Le parole allarmanti dei pentiti della Silicon Valley prendono forma in intermezzi filmici in cui una famiglia americana è totalmente in balia degli algoritmi digitali, i quali lanciano messaggi che colpiscono dritti all’obiettivo come un “proiettile magico”. Una semplificazione del rapporto comunicativo a mero automatismo in cui gli individui sono totalmente indifesi. Sono ridotti a semplici comparse sulla scena organizzata dai grandi della comunicazione digitale, caratterizzati da un’assenza totale di meccanismi di selettività e dunque disarmante passività degli individui. Uno scenario pavloviano, oramai fuori tempo.

È invece fondamentale la messa in luce sulla demassificazione della comunicazione in favore di palinsesti personalizzati, costruiti su misura per il fruitore di internet, poiché è qui che subentra il problema della presenza di insidie nella profilazione dei dati e nel mercato dell’attenzione.

Il docufilm prende una piega interrogativa verso la fine, riuscendo a centrare il vero problema: la mancanza di una forte regolamentazione dall’alto, leggi politiche ed economiche di ampia applicazione a tutela dei consumatori di internet.

Problematiche centrali della nostra modernità che “The Social Dilemma” ha avuto il coraggio di affrontare pubblicamente, ma all’insegna della semplificazione e senza onestà intellettuale.

La visione del reale filtrata dai social network è un tema che va analizzato e divulgato non per intimorire le persone, ma per renderle consapevoli dei meccanismi di percezione che si attivano nelle nostre attività quotidiane.

Analizzare la realtà del reale talvolta ci sembra superfluo o addirittura insensato; eppure quando ci si trova davanti a un bel panorama, come il mare e le sue onde, è più facile setacciarlo con i filtri di Instagram piuttosto che con i filtri dei nostri occhi.

Quest’operazione, che ormai facciamo inconsciamente, è inquietantemente spontanea. Vediamo la realtà, la apprezziamo per poco e poi pubblichiamo una realtà filtrata che addirittura ci appare migliore.

La discussione è antica, ma si ripropone con vesti nuove in ogni epoca.

Il filosofo Immanuel Kant dedicò l’intero suo filosofare alla costruzione di un sistema gnoseologico che fosse coerente, andando a sviscerare lo scibile umano e a dissezionare il modo di conoscere dell’uomo. Nella “Critica della Ragion Pura” analizza il nostro modo di conoscere: viviamo in un mondo fenomenico, ovvero di “rappresentazioni”, non di oggetti. È l’uomo che dà “vita” alla realtà, e non viceversa.

Della realtà intesa appunto con le limitazioni dell’uomo: non potremo mai conoscerne l’oggetto, la natura così com’essa è, ma la conosceremo così come appare a noi, e applicando questo filtro all’intera gamma di cose esistenti si arriverà a enunciare che noi viviamo in un mondo di leggi naturali, ma che vengono date da noi alla stessa.

Solo accettando il fatto di vivere in un mondo fenomenico in cui la nostra mente agisce con un numero finito di passi possiamo calare la soggettività dei nostri pensieri in quel grande contenitore che è il mondo, facendoli diventare giudizi oggettivi.

Ma cronologicamente prima di Kant, abbiamo Renè Descartes – “Che cosa siano gli oggetti presi in sé stessi, a prescindere dall’intera recettività della nostra sensibilità, ci è del tutto ignoto” – che nelle “Meditattiones de Prima Philosophia” e poi nel “Discours de la Methode” analizzò quanto i nostri sensi siano soggetti a errore e quanto bisognerebbe analizzare e mettere tutto su un piano critico per desoggettivizzare il molteplice.

Le “Meditazioni metafisiche” sono il pilastro su cui Descartes basa la riforma del sapere, su cui parte l’acuta riflessione sulla soggettività di ogni giudizio e quindi sulla sua fallacia. Occorre una via, una “scienza” del sapere che regoli tale confusione, occorre costruire un abito che aderisca bene alle menti di tutti e che si possa adattare e prevenire ogni sensibile fallacia: “Lo spirito umano, riflettendo su sé stesso, conosce di non essere altro che una cosa che pensa.”

I quesiti di fondo del docufilm attraversano ogni epoca ed è interessante vedere il profilarsi delle nuove sfumature per ognuna di essa. “The Social Dilemma” lo fa prendendo in analisi gli strumenti caratteristici della nostra modernità.

Un messaggio “tra le righe” dei pentiti della Silicon Valley è da accogliere: noi, come individui e come umanità, abbiamo il diritto e il dovere di essere attivi e reattivi a stimoli indotti. Tuttavia “The Social Dilemma”, affrontando un tema tanto centrale quanto complesso, scivola nella semplificazione. Volutamente?