Clubhouse visto dal figlio di un “clubhouser”

› Scritto da

In casa ci sono tre smartphone: due dispositivi Android e un dispositivo iOS. Quest’ultimo è utilizzato da mio padre.

Ho letto dell’esistenza di Clubhouse giusto qualche giorno prima che se ne parlasse in qualsiasi portale online (e offline) italiani: in Giappone gli inviti giravano già da qualche giorno.

Ciò che ho visto nelle ultime due settimane mi ha spinto a scrivere questo articolo dal punto di vista di un giovane, utilizzatore di Android per scelta, escluso da un network non essenziale e al contempo in grado di osservare l’evolversi della situazione in casa propria per mano di un utilizzatore di questa applicazione.

Il primo aspetto che ho notato è stato sentire la porta della camera dove lavora chiudersi più volte, rispetto al solito. Oltre alle telefonate di lavoro, si è aggiunto l’intervento.

Se il primo contatto con l’applicazione è stato naturalmente l’ascolto passivo di una conversazione, con il passare del tempo si è trasformato in un utilizzo attivo della stessa app. Questo è successo quando uno speaker ha chiesto un suo intervento. Essere speaker in una stanza significa essere in cima di una lista verticale di nomi e cognomi. Essere in cima significa essere leader. Essere leader significa avere più follower.

In una delle prime sere ho studiato l’interfaccia, facendomi spiegare da mio padre l’uso e il consumo dell’applicazione e la struttura assai gerarchica e poco democratica dell’esperienza utente. Avevo notato una cosa: 44 following, 88 follower. E quei follower vengono soltanto dalla prima volta che aveva parlato.

Se parli, hai seguito.

Il secondo aspetto l’ho notato mentre mio padre stava facendo colazione. Non è una di quelle persone multitasking che, quando mangia da solo, guarda il telefono contemporaneamente.

Ma se il consumo dei contenuti è passivo e si è in connessione con persone che vivono otto ore avanti, perché non fare colazione e ascoltare persone che parlano di prima mattina?

Il terzo aspetto che ha messo in luce Clubhouse è la privacy: non quella dei contatti in rubrica, ma la privacy intesa come la messa in luce della vita di una persona.

Il 2020 è stato sicuramente l’anno delle webcam, ma bene o male qualsiasi piattaforma può funzionare anche senza il video, oppure lo sfondo può essere sfocato e la privacy rimane protetta. Inoltre, in generale, è a discrezione dell’utente rivelare se si è svegli alle 4 di mattina.

Questo non succede su Clubhouse e gli argomenti di discussione durante la cena ruotavano su questo aspetto: “Sono le 20:00, in Giappone le 4:00 e c’erano Tizio, Caio e Sempronio, cinquantenni, che ancora discutevano di questa cosa qui!”

Più il tempo passava, più preferivo non approfondire di mia spontanea volontà l’argomento.

Lo smartphone è un oggetto studiato per essere utilizzato e Clubhouse è un network poco social fondato sulla necessità di conoscere l’argomento di discussione, e ciò richiede tempo, non basta osservare due immagini e leggere due righe di testo, perché non puoi farlo.

Di conseguenza, Clubhouse può e sa creare dipendenza, non a causa della necessità di nuovi contenuti da consumare ma per colpa della FOMO.

Ritengo Clubhouse poco social perché, a differenza di altri social network, essere seguiti da una determinata persona comporta visualmente una scalata sociale. Non saresti un ascoltatore qualunque. Saresti l’ascoltatore seguito dallo speaker, saresti quell’amico seduto in seconda fila pronto a darti la pacca sulla spalla, ma che in un ambiente di opportunismo, quella pacca sulla spalla non te la dà.

Prima di scrivere questo articolo, in mattinata ascoltando un podcast c’è stata una frase di Antonio Dini che, penso, meriti la nostra attenzione: “La prima impressione che mi ha dato, sul panorama italiano, è quella dell’idea di un’assemblea autogestita, i cui leader sono leader autoproclamati. Fanno parlare chi decidono e poi c’è gente che passa a caso e dice delle cose, e se ne va. Ma fondamentalmente un concetto è noto ed è quello di una finta orizzontalità, dove in realtà ci sono delle gerarchie molto forti, anche a causa della mancanza di una struttura”.

Ma ha anche i suoi aspetti positivi, soprattutto per chi con la voce ci lavora.