Google sotto inchiesta: il colosso tech nel mirino dell’Antitrust

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Google è nel mirino dell’Antitrust statunitense ed europeo. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha accusato il colosso di Mountain View di “soffocare la concorrenza per mantenere la sua posizione predominante nel mercato della ricerca online e della pubblicità ad essa associata”. Undici Stati hanno preso parte alla causa: Florida, Texas, Georgia, Indiana, Arkansas, Kentucky, Mississippi, Missouri, Montana, Louisiana e Carolina del Sud.

Dopo oltre un anno di indagini, il 20 ottobre 2020 hanno lanciato ufficialmente un’azione contro Google. L’accusa è di condotte discriminatore attuate da Google nei confronti della concorrenza, abusando della propria posizione dominante.

I comportamenti in questione fanno riferimento al maggio 2018 e riguardano l’interruzione dell’erogazione agli operatori del mercato del digital advertising delle chiavi di decriptazione ID degli utenti, le quali permettono di studiare i comportamenti di chi naviga.

Prima di tale data Google forniva le chiavi agli inserzionisti e, così facendo, si potevano associare gli ID utente di terze parti, esterni a Google, con gli ID decriptati, appartenenti a Google. Nello stesso periodo il colosso di Mountain View ha interrotto l’utilizzo di cookies e pixel di tracciamento di terzi per la targetizzazione delle pubblicità. Ad agosto 2015 ha interrotto la vendita di inserzioni su Youtube, non autorizzando più il tracciamento degli utenti da parte di altri operatori ma continuando a utilizzarli per sé, raggiungendo di fatto una capacità di targetizzazione incontrastabile.

I dati parlano chiaro: Google ha una posizione dominante nel mercato della pubblicità digitale perché la vendita della pubblicità online si basa sulla disponibilità del più alto numero di dati di profilazione dei soggetti destinatari della pubblicità e Google ha quote oltre l’80% di query di ricerca – percentuale di richieste effettuate dal pubblico su Google – per fornitura di server nell’erogazione di servizi di acquisto e vendita di pubblicità.

Gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme e ad aver colto il segnale c’è anche l’Italia. Da una segnalazione del 14 giugno 2019 dello IAB – Interactive Asdvertising Bureau, l’associazione imprese pubblicitarie online – è partita un’iniziativa guidata da Roberto Rustichelli, Presidente dell’Autorità Garante per la Concorrenza. Immediato è stato il controllo della Guardia di Finanza negli stabilimenti di Google, mentre dal punto di vista giudiziario è stata avviata la fase istruttoria, con conseguente raccolta e controllo dei dati e delle informazioni.

Il riferimento è ai sensi dell’art. 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, richiamato linearmente nell’art. 3 Legge 287/1990, che si occupa delle fattispecie di abuso di posizione dominante.

La conseguenza principale di un abuso di posizione è l’impedimento strutturale ad altri a concorrere e quindi l’assenza di competizione che, nel caso specifico di Google, può scoraggiare l’innovazione per lo sviluppo di tecnologie e tecniche pubblicitarie meno invasive per i consumatori e avere ricadute importanti anche sulle decisioni politiche. Non è secondario, infatti, ricordare che i colossi del tech sono tra i maggiori lobbysti a Washington, e che queste accuse molto dure arrivano a ridosso da un’elezione – quella statunitense – che ha visto le piattaforme tecnologiche sempre più sotto la lente per la loro influenza sulla democrazia e sulle dinamiche sociopolitiche attuali.

Da anni il potere enorme dei colossi tecnologici sta sollevando criticità in tanti mercati. La stessa autorità Antitrust americana, che generalmente ha un approccio liberale e quindi meno formalistico e più in linea con la politica del laissez-faire, nella valutazione delle condotte abusive, ha deciso di avviare tale causa, supportata dagli undici stati americani.

I comportamenti abusivi sono condotte complesse perché, anche se questi operatori sfruttano il loro potere di mercato dominante, hanno una componente consumerista e si pongono a cavallo tra la disciplina antitrust, la disciplina di protezione del consumatore e della privacy, perché spesso vertono sull’utilizzo strategico dei dati, il nuovo petrolio dell’economia.

I big data e gli abusi delle grandi compagnie tecnologiche sono temi trasversali che vanno analizzati con la lente di diverse discipline. Google ha effettivamente una posizione dominante, ma è complesso stabilire il confine tra ciò che è abusivo in un settore e magari non lo è in un altro.

Google risponde alle accuse facendo leva proprio sulla tutela della privacy dei consumatori, affermando che l’interruzione della condivisione dei dati a terzi fosse per la tutela dei fruitori di internet. Ha negato di dominare il mondo della pubblicità digitale, affermando di avere una forte concorrenza, e ancora è stato affermato che “le persone usano Google perché scelgono di farlo, non perché sono obbligate o non hanno alternative”.

Non è il primo, e probabilmente neanche l’ultimo, caso giudiziario aperto dall’antitrust nei confronti di Google. È vero però che le sorti di tale indagine avranno ricadute storiche sul mercato economico del digitale e sulla legislazione in materia. A tal proposito un passo legislativo importante avverrà il 2 dicembre: la Commissione Europea presenterà il Digital Services Act, un regolamento sul rapporto tra l’Unione Europea e l’economia digitale, e tra gli obiettivi vi è la garanzia di una maggiore trasparenza in materia di advertising online. Nel mirino comunitario vi sono i colossi del tech, primo tra tutti Google. Si avvierà l’iter legislativo necessario, che forse vedremo pubblicato nell’ultimo trimestre di quest’anno per poi essere sottoposto all’approvazione del Consiglio Europeo e del Parlamento Europeo.