L’hate speech online e il disimpegno morale

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Chi sono le persone che odiano? Sono persone frustrate, cattive?

Come si chiedeva Hannah Arendt nel suo libro “La banalità del male”, una persona può fare del male senza essere necessariamente malvagia? Nel caso esaminato dalla scrittrice, quello diAdolf Eichmann, funzionario nazista responsabile di aver organizzato il trasporto di milioni di ebrei nei campi di concentramento, l’uomo non era né sadico né malvagio, ma spaventosamente normale.

L’odio online si sta diffondendo velocemente e su larga scala, ma quante persone che compiono queste azioni sono effettivamente normali, spinte solo da superficialità e incoscienza?

Ma soprattutto, come può una persona non sentirsi in colpa nello scrivere insulti, augurare la morte o lo stupro ad un estraneo?

Come dice Matteo Flora nel documentario “I Fili dell’#Odio”, la distanza fisica ci permette in qualche modo di avere più libertà nel fare del male all’altro soggetto, poiché non lo vediamo soffrire dietro lo schermo.

Un’altra risposta a queste domande possiamo trovarla in quelli che il sociologo e psicologo Albert Bandura sintetizza come i meccanismi di disimpegno morale. Sono percezioni interne alla psiche dell’uomo, che permettono di liberarsi da un’auto condanna per un’azione cattiva. In poche parole, non ti fanno sentire in colpa quando dovresti sentirti tremendamente colpevole per un’azione malvagia commessa.

Albert Bandura racchiude questi meccanismi di disimpegno morale in tre gruppi.

Ridefinizione della colpa

Il primo di questi meccanismi viene chiamato giustificazione morale: si fa appello a fini superiori (ad esempio principi accettati socialmente, onore, religione) per mettere in ombra la cattiva azione, ridefinendone il significato.

Ad esempio, usare la scusa della “libertà di espressione sui social network” è un ottimo meccanismo di giustificazione morale come discolpa di un commento d’odio.
La linea di confine tra la libertà democratica dei social network e la diffusione dell’hate speech è tremendamente sottile, per cui è facile approfittarsene tanto a livello normativo quando a livello di moralità.

“È un semplice commento, non l’ho mica uccisa”, spesso si giustifica così un augurio di morte sui social, attenuando totalmente la gravità dell’azione e mascherando il vero significato della frase d’odio. Questo meccanismo, il secondo della teoria di Bandura, viene chiamato etichettamento eufemistico.

Viene anche citato nell’esempio di Matteo Flora nel documentario: “Siamo passati da un fenomeno di oppressione nazifascista nei confronti degli Ebrei a cose ben più sottili, che rappresentano in tutti i modi il razzismo ma sono socialmente accettabili”.

Effettivamente nessuno di quelli che fa un commento antisemita online rapporterebbe il suo comportamento a quello del razzismo nazista, e proprio a questo punto entra in campo l’ultimo meccanismo di ridefinizione della colpa, il confronto vantaggioso. Possiamo vederlocome benaltrismo: “Ci sono problemi molto più gravi rispetto all’insultare qualcuno su Internet. Così ogni commento d’odio viene confrontato con azioni ben più gravi e moralmente peggiori, lasciando la coscienza dell’odiatore limpida e pulita.

Valutazione delle conseguenze dell’azione

Nel dislocamento della responsabilità, l’odiatore attribuisce la responsabilità dell’azione ad un terzo esterno, come ad esempio un’autorità, che ha istigato la sua azione. Non a caso, quando un politico istiga odio attraverso i social, i messaggi di hate speech verso la categoria vittima della cattiveria aumentano vertiginosamente, proprio perché gli odiatori si sentono giustificati moralmente nel seguire le orme del loro leader. Esistono in Italia leader che odiano più di altri, come indica il report di Amnesty International (https://www.amnesty.it/cosa-facciamo/elezioni-europee/).

Quando poi questi messaggi di odio sono collettivi e in numero grandissimo, entra in gioco in meccanismo di diffusione della responsabilità, in cui le colpe di diffusione di hate speech possono essere attribuite a tutti, e quindi in definitiva non sono di nessuno.

C’è poi il meccanismo di distorsione delle conseguenze: consente di ignorare o minimizzare del tutto il danno arrecato delle proprie azioni in modo da non sentirsi in colpa. “Il mio era solo un commento, se ci sta male ha sicuramente altri problemi!”.

Rivalutazione della vittima

È molto più facile sfogare il proprio odio sapendo che la persona davanti a noi non prova sentimenti umani: da Bandura viene chiamato meccanismo di deumanizzazione. Capita quando viene descritta la persona come un animale o un oggetto, o un elemento spregevole, come denuncia Michela Murgia nel documentario: “Nel momento in cui devono annichilirti, non ti dicono che non sono d’accordo con te, ma non mi piaci, sei uno schifo, non sei desiderabile”.

L’ultimo meccanismo è l’attribuzione di colpa in cui si convince che l’offesa arrecata alla vittima è da lei pienamente meritata e che si merita ciò che ottiene, in questo caso l’odio. Laura Boldrini ci suggerisce che questo è ciò che avviene nei confronti dei migranti, considerati i colpevoli di ogni male che colpisce i cittadini italiani. Così è più facile insultarli e odiarli senza sentirsi in colpa, visto che sono loro colpevoli dei mali dell’Italia.

La risposta alle nostre domande è quindi chiara: l’odio viene da persone totalmente normali, né cattive né sadiche. Per prendere le parole di Michela Murgia, “l’odio viene dalla tua vicina di casa gattara, dal tuo vicino di casa che porta i bambini all’asilo e che tifa la tua stessa squadra”.