Diritti dietro lo schermo e nuove generazioni. Una discussione “sui generis”

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Diritti dietro lo schermo

di Valentina Ochner

Onlife è il termine coniato da Luciano Floridi, filosofo e professore ordinario a Oxford, per indicare la stretta e indissolubile connessione di oggi tra la vita reale e quella virtuale. Due mondi diversi, ma parte della stessa società che le unisce nella vita di ogni giorno. 

L’interazione tra questi due mondi è stata oggetto della diretta Facebook organizzata dalla redazione di Change The Future, con la partecipazione di SottoSopra – Movimento Giovani per Save the Children, che ha aperto un dialogo con Brunella Greco, Thematic Advisor delle Tecnologie Digitali per Save the Children.

Tra i primi aspetti trattati ci sono i rischi dei social media.

Spesso l’odio online viene analizzato pensando che derivi dall’esclusivo utilizzo dei mezzi di comunicazione virtuali, ma le radici del problema sono ben più profonde: sono i problemi strutturali della nostra società che si riflettono anche nella vita virtuale di ognuno.

Pensiamo per esempio all’odio di genere, quello che colpisce le persone non in base alle loro idee, ma al fatto di essere donne o uomini. Questo non è nato con i social, è insito nella nostra società e legato a stereotipi che provengono dal mondo reale: i social offrono semplicemente un’enorme cassa di risonanza.

Questo si basa spesso su preconcetti irremovibili e sulla necessità di far arrivare il proprio violento disappunto a chi non li rispetta, a volte nascondendosi nell’anonimato che lo strumento permette. La risposta che torna dal pubblico virtuale, inoltre, alimenta la forza e la convinzione degli haters, fomentando una progressiva escalation di violenze in certi ambienti virtuali.

Queste forme di odio gratuito sono accentuate dall’uso dei social a causa di un fattore biologico: l’impossibilità di vedere la reazione negli occhi della persona attaccata, che non permette l’attivazione dei neuroni specchio, motore fondamentale dell’empatia umana.

Esempio di questo fenomeno sono le chat violente su Telegram di cui si sente talvolta parlare: chat che coinvolgono anche giovanissimi e si basano sulla condivisione dell’odio verso una persona, che spesso non si conosce, e di cui si ha magari soltanto una normalissima fotografia.

L’esistenza e la diffusione di questi fenomeni pone gli adulti davanti a una nuova esigenza: formare bambini e ragazzi in grado di riconoscere queste dinamiche e valutarne le conseguenze. Se non educati alle tecnologie digitali e al pensiero critico, i giovanissimi rischiano di vivere la loro vita virtuale come se fosse un videogioco, come spiegato nell’Atlante dell’Infanzia (a rischio), redatto da Save The Children, senza rendersi conto che le loro azioni avranno ripercussioni sulla vita reale di qualcun altro.

Un altro tipo di educazione necessaria, legato alla violenza di genere, anche online, è quella sessuale, che l’OMS raccomanda già a partire dalla scuola primaria, per formare cittadini più consapevoli.

Le violenze online, inoltre, tendono a far sentire le vittime più sole: credono di non aver nessuno a cui poter chiedere aiuto, anche perché, come ha fatto notare in chiusura Andrea del Movimento SottoSopra, “un insulto è una violenza meno tangibile di un pugno, ma non per questo meno grave”.

I social non sono soltanto problemi da risolvere, ma anche grandi opportunità da sfruttare per veicolare messaggi di sensibilizzazione e informazione, come ha sottolineato l’esperta Brunella Greco.

Si pensi ai luoghi online dove si incontrano persone appartenenti a una determinata minoranza per chiedere sostegno, come avviene per la comunità LGBTQI+. A volte la comunità online riesce a sopperire a un sostegno che il contesto in cui si vive non fornisce. Per questo motivo i luoghi online di apertura e libera espressione sono utili, indispensabili.

Un altro esempio di uso positivo dei social sono le pagine che promuovono la diffusione dei diritti e della conoscenza delle diversità.

A tal proposito SottoSopra ha portato avanti una campagna di sensibilizzazione riguardo alle violenze di genere nel corso dell’ultimo anno, sfruttando anche i social come mezzo di comunicazione per diffondere il loro messaggio.

Le violenze di genere e la loro narrazione sono state l’argomento principale della discussione finale tra i redattori di Change the Future, i ragazzi di SottoSopra e Brunella Greco. Un punto molto interessante che è stato sollevato è stato quello della narrazione stereotipata delle violenze di genere, dove l’automatismo porta a responsabilizzare la vittima, invece che l’assalitore. Questo vale

La discussione finale si è conclusa con il tema della censura sui social e nei media in generale: partendo dalla statua di Montanelli, arrivando fino alle censure su vecchi film della Disney, come gli Aristogatti, i partecipanti alla discussione si sono trovati concordi nell’affermare la scarsa utilità della censura: la storia va studiata, anche nei suoi momenti più bui, per trarne insegnamenti. La soluzione non è censurare, ma istruire e insegnare ai più giovani a non cadere negli stereotipi, di cui la società sta cercando, faticosamente, di liberarsi.

Una riflessione da cui partire

di Soraya Avinotti

La maggior parte delle volte elogiamo i social per aver creato una connessione nel mondo che prima non esisteva, per aver dato la possibilità di dare voce ed esprimersi liberamente. Il social è una sorta di amplificatore: se da una parte permette di informarsi ed educare su argomenti che normalmente non verrebbero mai toccati, dall’altra c’è chi lo utilizza per diffondere odio.

In particolare, parlando di “violenza on life”, questa viene trasportata “on line” sotto varie forme, tramite commenti in anonimo o con la pubblicazione di immagini o video senza consenso. In questi casi si parla di cyberbullismo, giusto? Difficile pensare ad azioni più vili, ma se “on life” esiste la violenza psicologica, ne esiste un corrispettivo anche “on line”. Più vile, più doloroso forse di dire ad una persona che è orribile, è indurla a pensare da sé “sono orribile, non valgo niente”. L’induzione ad atti violenti non è una cosa nuova. Diventa quindi sempre più difficile non andare incontro a certi contenuti più sensibili, soprattutto in tempi ostici come questi, in cui i social sono l’unico appiglio per avere un “contatto umano”.

La pandemia e i lockdown hanno incrementato il livello di stress un po’ per tutti, alimentando paure, sindrome del prigioniero e quant’altro. Internet e i social sono diventati il passatempo preferito e indispensabile per la maggior parte delle persone, che sia per studiare, lavorare, videochiamare, etc., un buon 75% della nostra giornata la passiamo dietro a uno schermo.

Personalmente, sento che il livello di odio sui social sia aumentato dall’inizio della pandemia, forse per riversare lo stress, forse perché appunto si è perso il contatto con il mondo reale e si è dimenticato che dietro quel nome utente c’è una persona fatta di carne e nervi, con emozioni, e non un bot fatto di input e risposte automatiche. Ma questo è solo un aspetto, perché qui non si parla solo di violenza “on line”, ma di come proteggersi da questa e in particolare come proteggere i più piccoli.

Come si può essere sicuri che nel momento in cui non stai controllando, perché convinto stia utilizzando il computer per fare i compiti in classe, un bambino o una bambina non apra TikTok e faccia la stessa orribile fine di quella bambina di 8 anni a Palermo? Come si fa quando un bambino ha più capacità di utilizzare internet e i social?

Se poi vogliamo approfondire l’aspetto pandemia e violenza “on life”, c’è forse ancora di più da dire. La pandemia e il lockdown hanno messo in seria difficoltà le famiglie, tra chi ha perso il lavoro a causa del covid, chi si trovava già in una situazione non proprio rosea e non aveva i mezzi tecnologici richiesti per la DAD o lo smart working. Ma al di là della mancanza di mezzi e della situazione economica, più preoccupante è stato per quelle famiglie che a casa già da prima vivevano una situazione di violenza. Tra i primi pensieri, all’annuncio del lockdown, sui social c’è stata la condivisione della preoccupazione per chi, costretto a stare a casa, non poteva sfuggire a queste violenze.