Ritorno all’isola del non ritorno: Change the Future a Lampedusa, lo speciale

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Benvenuti in Europa. Benvenuti in un’Europa lacerata e stanca. Benvenuti in Europa, nel suo punto più a sud. Benvenuti alla Porta d’Europa: il grande continente che ha garantito politiche di assistenzialismo e un’alternativa all’American Dream. Benvenuti nell’Europa del dopoguerra e nella patria degli Stati Nazione: la fortezza Europa non vi accoglie!


La linea del colore rimarca il confine netto tra cielo e mare: tra chi ha il privilegio di volare e chi ha il timore di nuotare.

Con il cuore che trema un po’, volo a Lampedusa dopo un anno esatto dall’ultima volta, in occasione della Giornata della Memoria e dell’Accoglienza. Sono stati 365 giorni di incontri, approfondimenti e parole. Ritorno all’isola del non ritorno. (N.d.A. la prima versione aveva un titolo differente, accostava l’aggettivo nero a un luogo geografico: un retaggio coloniale, fattomi notare da uno dei ragazzi citati. Questo esempio vuole indicare quanto il razzismo sistemico sia insito dentro ognuno di noi.)

Ero una persona diversa io, diverso il gruppo di lavoro e un tempo diverso quello in cui ci trovavamo a vivere. Cosa è cambiato da allora?

La storia cambia giorno per giorno e qui – nell’isola del Mediterraneo – senti il suo flusso irrefrenabile precipitarti addosso. 

Quando gli chiedo se va tutto bene, Marzio Emilio Villa, artista afro-indigeno, classe 1987, mi risponde: “Non va tutto bene: non è giusto”. 

E poi che ingenua io: ovvio che non va tutto bene. Sono le 3 e 55 del 3 ottobre 2022, Lampedusa. Intorno a noi sciami di lacrime tornano al loro posto, vite interrotte dal naufragio si riuniscono intorno al fuoco sacro della poesia, giovani donne e uomini – consapevoli della realtà che circonda loro – decidono di commemorare. 

L’etimologia di questa parola è bellissima, ne ha parlato Giordana Battisti nel pezzo Il cimitero di Lampedusa.

“Io, come maschio bianco e etero – non discriminato – posso solo sentirmi una merda. Non c’è niente altro che io adesso possa fare” dice Giuseppe Francaviglia, giornalista classe 1990 e attivista di Festival Divercity insieme a Marzio, Andi e Cinzia. E non è giusto che siamo qui a ricordare un naufragio avvenuto a pochi metri dalla costa. Vite che potevamo salvare: non ce l’abbiamo fatta. 

Come evitiamo il prossimo disastro? Come racconteremo ai nostri figli le giornate di Lampedusa? Con quale coraggio poi diremo loro che eravamo impotenti di fronte al male, di fronte al mare?

La banalità del male. Ne ha parlato Hannah Arendt: la banalità della crudeltà inerme che ci attanaglia. Ci sentiamo tranquilli nelle nostre case, a posto con noi stessi se votiamo centro-sinistra? 

E poi continuano i discorsi d’odio: imperterriti agevoliamo il razzismo sistemico e istituzionale, che si infila nelle fessure della democrazia. 

Responsabilità politica e responsabilità civile sono strettamente legate: si intersecano e non c’è via di scampo. Possiamo votare per farci rappresentare, per scegliere chi al posto nostro si occuperà di redarre politiche, sia a livello nazionale che europeo e poi globale. Chi siamo noi, poi, per giudicare se un essere umano – esattamente come noi – sia legale oppure no? 

Come facciamo a dire che una vita possa essere illegale? 

Senza saperlo, continuiamo a perpetrare comportamenti che rendono maggiormente efficace e potente la Necropolitica, un termine approfondito da Achille Mbembe, filosofo e ricercatore camerunense, nel suo saggio che dà il nome al concetto stesso. Questa parola rientra nella dimensione biopolitica e di biopotere, ampiamente discussa da Foucault. La necropolitica si può definire come l’uso del potere sociale e politico, attraverso una serie di pratiche esplicite ed implicite, volto ad esercitare il controllo sulla vita e sulla morte delle persone. In questo senso, la necropolitica si manifesta anche nella legittimazione dell’esposizione alla morte di alcuni particolari gruppi umani e individui da parte di chi esercita il potere.

Inoltre, il confine tra giustizia e legalità è molto labile. Si rischia di scivolarci dentro. “La cornice giuridica nella quale il fenomeno migratorio è immerso è molto complicata, spesso sconosciuta ai più” spiega Mpanzu Bamenga, ex rifugiato politico e consigliere della città di Eindhoven in Olanda. “Ma soprattutto non è conosciuta da chi affronta il viaggio in mare” aggiunge nel suo workshop “Migration and EU citizenship: what can you do to change the world?”. In particolare, questo iter burocratico non risulta chiaro per chi partecipa a “the game”, ritrovandosi in un attimo a essere vittima di politiche non abbastanza inclusive, di poteri non abbastanza forti da salvare tutti.

La tematica del doppio standard ci pervade: è il colore della pelle che fa la differenza? Io penso di no. Io credo che l’Unione Europea sognata e immaginata sull’isola di Ventotene fosse un po’ così: pluriculturale, pluricolore e plurisinfonica.

Perché lasciamo fuori – senza ritegno – chi fugge da guerre e persecuzioni e accogliamo chi fugge da guerre e persecuzioni, ma ha il vantaggio dato dal colore bianco della  pelle?

Davvero la provenienza diventa criterio per giudicare chi è dentro e chi è fuori? Ne hanno parlato le giornaliste Nancy Porsia e Angela Caponnetto, all’interno della Tavola Rotonda “A doppio standard”, organizzata dal Comitato 3 ottobre all’interno dell’evento “Welcome Europe”, tenutosi sull’Isola dal 30 settembre al 3 ottobre 2022. Sono state coinvolte scuole, studenti e studentesse da tutta l’Italia e dal mondo e i loro docenti, per costruire insieme un’alternativa possibile all’Europa di oggi. 

Proprio queste giornate sono state il mio pretesto per tornare sull’isola e il modo in cui oggi si è mostrata a me è totalmente differente: per incontrare le storie che sono approdate lì. Questo l’approccio con il quale l’ho attraversata.

Sono le lacrime che lasciamo scendere collettivamente ogni anno il 3 ottobre – Giornata della Memoria e dell’Accoglienza – a dare un senso a ciò che facciamo?

Torniamo a casa, nelle nostre tranquille abitazioni, con il riscaldamento, l’acqua calda e un tetto a proteggerci. E ora che si fa?

Si condividono lotte, si sta a fianco – mai davanti – e si tiene la mano, si porge quella stessa mano. Si tira per un braccio e poi ci si lascia accarezzare i capelli. Ci si abbraccia forte e poi ci si lascia andare, per strade nuove, per consapevolezze nuove e biografie da continuare a riempire di bellezza. 

Si alza la testa, si guarda il cielo: è lo stesso. 

Sono le stelle a dare senso a quello che facciamo.

E le storie di chi incontriamo sulla nostra strada: il pescatore, Jamail e Alì.

Qualcosa in più sulla linea del colore

“Il termine Color Line venne usato in origine come riferimento alla segregazione razziale esistente negli stati Uniti, dopo l’abolizione della schiavitù.

Un articolo scritto da Frederick Douglass che si intitola “La Linea del Colore” fu pubblicato nella “North American Review” nel 1881. Chi ha attraversato per primo la linea del colore? Jackie Robinson ha cambiato per primo le dinamiche della  Major League di Baseball quando ha attraversato la “linea del colore” unendosi ai Brooklyn Dodgers nel 1947.

Robinson e il dirigente Branch Rickey, che l’aveva contrattualizzato, hanno distrutto il tacito accordo degli anni ‘80 del ‘800 per cui nessun giocatore nero avrebbe potuto gareggiare nelle major leagues.

Ma chi crea il nero e il bianco? Il bianco è ciò che vediamo quando tutte le lunghezze d’onda della luce vengono riflesse da un oggetto, mentre il rosa è una miscela di lunghezze d’onda rosse e viola. Il nero, invece, è ciò che i nostri occhi vedono in uno spazio che riflette pochissima luce” (da Color line – racism).