Il vaccino contro le fake news: e se cambiassimo punto di vista?

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Dopo essersi convertito al cristianesimo, l’imperatore Costantino espresse in una lettera l’intenzione di voler donare un terzo dell’Impero romano alla Chiesa. La lettera sembrerebbe risalire all’anno 315 d.C ma in questa viene citata la città di Costantinopoli, la cui fondazione avvenne soltanto nel 330 d.C. Si tratta chiaramente di un falso storico, che però venne utilizzato dal Papa per legittimare il suo potere temporale. Questa lettera è comunemente conosciuta con il nome di “Donazione di Costantino” ed è la prima fake news della storia.

“Se non hanno più pane, che mangino brioche” (“S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche”) è l’affermazione erroneamente attribuita a Maria Antonietta, la donna più odiata di Francia. Lussuriosa, golosa e dedita ai vizi più perversi, la sua figura venne riabilitata soltanto molti anni dopo la sua morte, anche grazie al lavoro di scrittori, storici e registi che hanno contribuito a farne una narrazione diversa.

A metà del secolo scorso, il regista Orson Welles gettò l’America nel panico quando, durante una trasmissione radiofonica, trasmise in diretta la cronaca dello sbarco dei marziani, raccontando e interpretando la vicenda narrata nel romanzo La guerra dei mondi. Furono in molti a credere che la Terra stesse effettivamente subendo l’invasione da parte dei marziani, ebbero la percezione di essere sotto attacco.

Nel 2003 il segretario di Stato americano Colin Powell parlò alle Nazioni Unite agitando una fialetta contenente una polvere bianca, accusando apertamente l’Iraq di produrre armi di distruzione di massa. Un mese dopo l’accaduto ebbe inizio l’intervento militare nel paese. Molti anni dopo sarà lui stesso a smentire queste affermazioni, definendo l’episodio come una grande macchia nera sulla sua carriera.

Solo nell’ultimo decennio il termine “fake news” è entrato a far parte del lessico popolare, utilizzato per definire una notizia inventata o manomessa. La realtà dei fatti, però, dimostra quanto questo fenomeno sia presente da molto tempo, almeno dal 315.

Il fatto che il tema non sia “nuovo” non deve indurre a sottovalutare il fenomeno ma a osservarlo da una prospettiva differente. Innanzitutto, è necessario riconoscere un problema culturale alla base delle fake news, la cui diffusione trova spesso terreno fertile nei pregiudizi delle persone.

Guardando oltreoceano è facile comprendere come la notizia fortemente sostenuta dal presidente Trump, secondo il quale il Covid-19 sarebbe uscito da un laboratorio cinese, abbia avuto larga diffusione proprio perché ha fatto leva su sentimenti anticinesi. Le smentite provenienti da Pechino, dall’OMS, dai servizi segreti statunitensi e da Anthony Fauci, membro della task force del presidente Trump, non sono state sufficienti per sradicare totalmente questa convinzione.

All’inizio del secolo scorso vennero diffusi i Protocolli dei Savi di Sion, contenenti il presunto piano segreto elaborato dagli ebrei per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo. Questo documento, poi rivelatosi falso, venne in realtà creato dalla polizia segreta zarista con l’intento di fomentare l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo, un sentimento che al tempo era già molto diffuso. I protocolli divennero in seguito parte integrante del disegno propagandistico nazista e una giustificazione per perseguire gli ebrei, ritenuti responsabili di tutti i mali del Paese.

Le notizie false incontrano una così ampia diffusione perché fanno leva su opinioni e pregiudizi già presenti nel lettore, perché attivano emozioni forti come la paura. Per questo sono anche difficili da eliminare.

Oggi si ha la percezione di essere circondati da fake news ma mai come in questo periodo abbiamo avuto tanti strumenti per contrastare la loro diffusione. Il fenomeno ha avuto grande risonanza nell’ultimo decennio, soprattutto per via della rapidità con cui queste false notizie possono fare il giro del mondo attraverso i principali canali di comunicazione. Il giornalismo non è esente da tutto questo e alcune volte il lavoro di ricerca e verifica che il giornalista è chiamato a compiere viene effettivamente sacrificato a favore della tempestività. Ma il sistema vittima/carnefice non può essere valido quando si parla di fake news. Il lettore, anche se poche volte responsabile della loro creazione, è attivamente coinvolto nella loro diffusione quando non le riconosce e ne subisce l’influenza. Smascherare le fake news è senza dubbio importante, ma educare il pubblico ad individuarle, riconoscerle e verificarle è una priorità.

In Svezia dal 2018 il programma delle scuole elementari prevede corsi per sviluppare le competenze digitali e favorire l’analisi critica delle fonti d’informazione per i giovani cittadini.

Un metodo tanto alternativo quanto innovativo, che non si limita quindi all’utilizzo di algoritmi per il fact checking ma cerca di contrastare il problema all’origine.

Un metodo democratico attraverso il quale si vuole incrementare la cultura digitale prima di ricorrere a misure drastiche come la censura.

Non è attraverso la rimozione o l’oscuramento di post e articoli che si può arrivare all’eliminazione delle fake news, che come abbiamo visto, hanno sempre resistito all’usura del tempo. L’educazione dei cittadini, al contrario, potrebbe essere l’antidoto, la misura che nel lungo periodo potrebbe rivelarsi realmente utile per fronteggiare questo problema, nel totale rispetto della democrazia.

Il tema fake news è stato il fulcro attorno al quale lo scorso sabato 6 giugno è stato costruito un webinar di formazione, al quale Change the Future ha partecipato al fianco di SottoSopra. Un momento educativo e di scambio, fortemente voluto dai ragazzi e le ragazze delle due organizzazioni.

Cosa sono, come vengono diffuse e come riconoscerle sono solo alcune delle domande alle quali è stato possibile dare delle risposte, ripercorrendo nello spazio di un pomeriggio gli sviluppi storici e i risvolti sociali legati a questo fenomeno.

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